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ACCUSATO DI RAPPORTI CON LA ‘NDRANGHETA, GIUDICE SUICIDA IN CALABRIA

L’ex gip del Tribunale di Palmi (RC), Giancarlo Giusti, agli arresti domiciliari dopo essere stato coinvolto in due inchieste della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Milano e Catanzaro sui suoi presunti rapporti con esponenti della ‘ndrangheta, si è impiccato con una corda nella sua abitazione di Montepaone Lido, il centro del Catanzarese dove viveva da alcuni mesi. Il giudice Giusti aveva 48 anni e si era da poco separato dalla moglie. Il 6 marzo scorso la Cassazione aveva emesso nei suoi confronti una sentenza di condanna a tre anni per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del processo di ‘ndrangheta sul clan Valle-Lampada. L’uomo aveva già provato a togliersi la vita. Il primo tentativo di suicidio si verificò nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto il giorno dopo la condanna a quattro anni di reclusione inflittagli dal Tribunale di Milano il 27 settembre 2012. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata e successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Secondo i primi accertamenti, Giusti viveva da solo. Sul posto sono intervenuti il magistrato di turno della Procura della Repubblica di Catanzaro e i carabinieri del Comando provinciale.

Giusti era stato accusato già nel 2011 perchè dal 2008 al 2010 (dapprima in quanto giudice dell’esecuzione civile a Reggio Calabria, poi giudice fallimentare, giudice penale e infine gip a Palmi) aveva nominato i professionisti che gli veniivano segnalati dal boss Lampada, nell’ambito delle sue procedure giudiziarie. E il boss, in cambio, gli aveva pagato soggiorni gratis a Milano per un totale di circa 70 mila euro, a base di viaggi aerei, hotel di lusso e prestazioni sessuali con prostitute che il giudice aveva anche catalogato in un dettagliato diario elettronico. Nel corso dell’inchiesta si scoprì che il giudice calabrese era finito sotto procedimento disciplinare dapprima per avere assegnato nel 2004 immobili alla società di cui era socio il suocero. Poi per aver affidato, su 945 incarichi dal 2000 al 2005, un terzo delle perizie sempre agli stessi 4 professionisti, e 116 procedure (per un valore complessivo di 300 mila euro di compensi) all’architetto sposato con la socia del suocero nella srl. Ma il procedimento disciplinare era terminato il 6 luglio 2007 con un’assoluzione del Csm che aveva riconosciuto la sua “buona fede, nel tentativo di riorganizzare un ufficio ereditato in condizioni disastrose”.

Nel 2012 inoltre, dall’indagine del Csm di Milano emersero più chiaramente i rapporti tra Giusti e Giulio Lampada, presunto capo dell’omonima cosca. In questo secondo caso l’accusa a carico di Giusti fu quella di avere ricevuto 120 mila euro per favorire la scarcerazione di tre elementi di spicco della cosca Bellocco della ‘ndrangheta. A Giusti fu contestata l’accusa di corruzione in atti giudiziari, aggravata dal metodo mafioso. Tuttavia il giudice Giusti nelle sue due ultime interviste si era definito innocente: “Sono stato leggero. Mi pento di aver infangato la toga, ma non sono un corrotto. Con Giulio Lampada c’era un rapporto affettivo amicale: gli volevo bene, lo consideravo una persona da abbracciare, un confidente”, aveva detto. “Come accertato dai processi in primo e secondo grado, nel periodo in cui lo frequentavo io non era assolutamente identificato come esponente della ‘ndrangheta”, ammettendo di aver sbagliato ad accettare il pagamento di donne e cene. “Mai ho preso soldi da lui. Sia chiaro. In tasca mia non è mai entrato un euro. Si è trattato solo di quattro cene con relative quattro donne. Questo era il modo di fare di Lampada, di testimoniare la sua amicizia. Lo faceva con tutti quelli che gli capitavano. Li è stato il mio errore. Ma attenzione a fare il salto, dalle utilità che ho ricevuto a una certa corruzione, che non vi è stata”, aveva aggiunto, sottolineando come la debolezza fosse dovuta al difficile momento attraversato in seguito alla separazione dalla moglie.

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