Sono venti anni gli anni di reclusione inflitti a Salvatore Parolisi per l’omicidio della moglie Melania Rea dalla Corte d’Assise d’Appello di Perugia che ha ricalcolato la pena dopo la Cassazione. Per l’ex caporalmaggiore i giudici hanno escluso l’aggravante della crudeltà, ma non concesse le attenuanti.
L’udienza dal contenuto “tecnico” si è svolta a porte chiuse e giudici si sono riuniti per rideterminare al ribasso la pena a 30 anni inflittagli in appello. Parolisi, ex caporalmaggiore dell’Esercito, è in carcere per l’omicidio della moglie, Melania Rea, uccisa il 18 aprile del 2011 con 35 coltellate e il cui corpo venne ritrovato nel boschetto delle Casermette, a Ripe di Civitella del Tronto, in provincia di Teramo.
Parolisi, difeso dai legali Walter Biscotti e Nicodemo Gentile e recluso a Teramo, non era presente in aula, al contrario hanno partecipato all’udienza il padre e il fratello di Melania, Gennaro e Michele Rea, accompagnati dal loro legale di parte civile, Mauro Gionni. Nelle oltre 100 pagine di motivazioni della sentenza, la prima sezione penale riconosce Salvatore Parolisi come unico responsabile del delitto, maturato in una “esplosione di ira ricollegabile a un litigio tra i due coniugi”.
Le ragioni fondanti del litigio, aggiunge la Suprema Corte nelle motivazioni “si apprezzano nella conclamata infedeltà coniugale” di Parolisi. Il “fatto delittuoso”, sottolineano i supremi giudici, “si inserisce nel contesto di una giornata ‘apparentemente normale’, i due coniugi erano attesi di lì a poco a casa di amici”, la figlia “era con loro” e “non è risultato alcun particolare contatto, nella fascia oraria immediatamente precedente, con ulteriori soggetti o terzi tale da far ipotizzare ulteriori e anomali appuntamenti”. La ricostruzione operata dagli inquirenti “colloca Parolisi sul luogo del delitto e costruisce il delitto stesso in termini di occasionalità” ossia legato al “dolo d’impeto” e non alla “premeditazione”. Per i giudici “la mera reiterazione dei colpi”, anche se “consistente”, non può essere ritenuta “fonte di aggravamento di pena”, in relazione all’aggravante dell’aver agito con crudeltà.