In un’Italia dove quasi nessun politico utilizza l’istituto delle dimissioni, il gesto di Letta che da parlamentare in carica – senza alcun motivo partitico o giudiziario, ma esclusivamente per scelta personale – decide di fare “un passo di lato”, come lo ha definito lui stesso, ha un effetto dirompente. “Da oggi lascio il Parlamento, ho dato la lettera di dimissioni al presidente Boldrini. Do le dimissioni da Parlamento ma non dalla politica, perché dalla politica non ci si dimette” ha detto l’ex premier a Dimartedì, su La7. Un modo per restituire dignità all’essenza stessa di fare politica, che non è certo quella di occupare uno scranno. “La mia non è una resa, faccio un passo di lato perché credo non abbiamo ascoltato messaggio cittadini che hanno detto basta con politica fatta da gente che non fa altro, non ha un mestiere. Ma per me è un rilancio, non starò zitto, dirò la mia. Il primo settembre comincio a lavorare con la scuola di Affari Internazionali a Scienze Politiche”.
E allora proprio di affari internazionali vogliamo parlare, in un colloquio che Letta ha concesso a Interris.it proprio per affrontare il tema europeo, e non solo.
Lei parla di “troppo poca Europa” come causa della crisi esistente, intendendo con ciò la mancanza dello sviluppo di una politica economica comune e di un’integrazione politica compiuta. Ma come si fa a superare questo ostacolo se è proprio il partner più autorevole, e cioè la Germania, a frenare in tal senso?
“È la partita decisiva del futuro. Una sconfitta equivarrebbe al fallimento del progetto europeo. In sintesi, un incubo. Per sventarlo bisogna agire su due livelli. Da un lato, evidentemente, quello politico-diplomatico. Occorre che Paesi come l’Italia costruiscano con gli altri partner una pressione molto più efficace affinché la Germania accetti di mettere la propria egemonia nei fatti finalmente al servizio dell’Europa comunitaria e non contro di essa. È un percorso complicato e carico di insidie, in cui Bruxelles è solo uno degli attori in gioco e sul quale pesano riflessi storici, interessi nazionali contrastanti, una certa pigrizia delle classi dirigenti europee nel discutere lo status quo. L’altro livello è quello squisitamente politico, di visione. All’europeismo costruttivo manca la forza dialettica, direi perfino la spregiudicatezza ideale, che connota populisti e antieuropeisti. Non spingiamo abbastanza sulla necessità di cambiare l’Europa che c’è per costruirne una più forte, solidale e solida. Non ci impegniamo per restituire un’anima al progetto. Non siamo abbastanza convincenti nel ribadire a tutti, Germania in testa, che senza l’Europa non si salva nessuno. Non lavoriamo, come dovremmo fare, su una europeizzazione dei partiti politici che li trasformi, da cartelli elettorali a scadenza quinquennale quali oggi purtroppo sono, in veri e propri motori del cambiamento”.
Quando si parla di moneta unica inevitabilmente si pensa agli affanni di alcuni Stati, come la Grecia. La domanda è un po’ provocatoria: quale politica può risultare efficace se manca proprio la materia prima, è cioè la moneta? In sostanza, come si fa a salvare la Grecia – o qualunque altro Paese – se nelle casse dello Stato non ci sono più soldi?
“Sulla Grecia c’è un concorso di responsabilità lampante. Da un lato, quello della classe politica ellenica, del passato e temo anche del presente. Dall’altro, quello di un’Europa che ha dissipato anni e risorse prima di trovare strumenti che potessero contribuire a sventare quanto sta accadendo ad Atene. Oggi il rischio legato all’opzione Grexit è ancora alto. Sarebbe una iattura per tutti, dagli esiti devastanti, sul piano finanziario e su quello ideale e politico. Certo è che i greci non possono far saltare il principio che vuole che i debiti si pagano e, inoltre, devono collaborare di più per il varo di quelle riforme interne che sarebbero necessarie. L’Europa d’altro canto, Germania in primis, deve trovare la forza di accettare un compromesso e fare un mea culpa sulle ricette tutte basate sull’austerithy del passato. Quelle senza dubbio non funzionano più e vanno archiviate”.
Come legge le disponibilità della Russia più volte accennata da Putin proprio a proposito della Grecia? C’è forse una strategia più ampia, che riverbera la propria azione sul controllo dell’energia?
“Quella della Russia è un partita molto delicata e troppo poco compresa in Occidente. La Grecia è solo uno dei tasselli nell’ambito della definizione di un ruolo geopolitico a tutto tondo, di influenza in Europa e nel mondo. Anche l’energia è uno dei tasselli di questa ben più articolata strategia. Sul punto sono molto d’accordo con la posizione di Romano Prodi: nessuna demonizzazione, nessuna chiusura a priori, nessuno sconto quando si travalicano i limiti”.
Lo scacchiere internazionale vede diversi teatri di guerra. In questo scenario oggi una preoccupazione in più è il ritorno alle cosiddette guerre di religione. Cosa ne pensa?
“Penso che non dobbiamo cadere nel tranello. Non si tratta né di scontro delle civiltà, né di guerre di religione. Si tratta, brutalmente, di potere. Di pretese di egemonia per raggiungere la quale la religione (o l’etnia, come purtroppo accade ancora in contesti dimenticati) non sono altro che un alibi, un collante molto efficace per mobilitare masse e miliardi di dollari”.
Come può l’Europa difendere i propri valori fondanti (solidarietà, libertà, uguaglianza, tanto per dirla alla francese) rispetto alla pressione che altre realtà, con diversi principi ma più solide basi economico-finanziarie, cercano di imporre al Vecchio Continente?
“L’Europa può sopravvivere senza perdere la propria identità solo mettendosi in discussione. Anzitutto come modello di democrazia. La crisi ha spazzato via le certezze di un paradigma di sviluppo che ci aveva regalato sessantanni circa di benessere e pace. Ora questo schema si è eroso e per rinverdirlo l’Europa non può che puntare in alto. “When in trouble, go big”, dicono gli americani. Ecco, l’approccio deve essere lo stesso: più le cose sembrano complicarsi, maggiore deve essere la spinta a raggiungere traguardi ambiziosi. E nulla è più ambizioso degli Stati Uniti d’Europa. Per farcela sono necessari tutta la visione e il pragmatismo di cui siamo capaci. Bisogna partire da subito, accelerando il più possibile l’integrazione economia e politica della zona euro e accattando forme di minore coinvolgimento per Paesi più riluttanti come il Regno Unito”.