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LA SCUOLA “ANTI DROGA”

Si ritorna a studiare, dopo aver pensato che mai e poi mai si sarebbe accettato di confrontarsi con un professore né tanto meno “perso tempo” sui libri. E invece è proprio da lì che si riparte, in un viaggio che prima si affronta nella “sicurezza” delle mura della comunità, e poi tornando in classe, nel luogo dove è giusto che stiano i ragazzi di quella età.

La scuola come terapia, obiettivo, futuro. Quando i ragazzi ospiti della Comunità Il Ponte di Civitavecchia tornano sui banchi – che non è ancora la libertà di ritrovare completamente se stessi, percorso che arriverà successivamente – scoprono con meraviglia di non essere “peggiori” dei propri coetanei ma addirittura “migliori”. Nel senso che le ferite provocate dal passato, seppur così in tenera età, danno quella maturità che li fa diventare punto di riferimento per gli altri. La rivincita del bene verso il male, la testimonianza di come sia possibile tornare a “dare”, una sensazione che fortifica tutti i soggetti coinvolti.

Qualche numero? 431 ragazzi hanno ripreso positivamente il percorso scolastico dal 1993 al 2016. Sono arrivate 15 licenze medie inferiori, 101 idoneità, 197 maturità, 61 universitari di cui 35 laureati. E quasi tutti con volti alti.

Nella comunità Il Ponte (o meglio Centro di solidarietà), nata nel 1978 a Civitavecchia dalla caparbietà di un (allora) giovane prete, don Egidio Smacchia, vice parroco di Allumiere, si respira tutto questo. Sbrigativamente queste realtà si definiscono “di recupero”, intendendo con ciò l’abbandono di una dipendenza, ma ciò che mi ha colpito è che la parola “recupero” in questo caso riguarda più i valori semplici del vivere insieme che una vicenda tossicologia.

Una sorta di viaggio a ritroso nel tempo, quando per “comunità” si intendeva il paese dove si viveva, quando l’educazione era al primo posto, la discrezione accompagnava l’interazione tra le persone, il mutuo soccorso era la norma e il dialogo il pane quotidiano.
Quando le regole erano regole, il relativismo non aveva ancora attecchito nella società e ci si conosceva gli uni con gli altri; esercizio fondamentale, questo, per attivare quel confronto che, alla fine, ci fa guardare dentro noi stessi e ci consente finalmente di “conoscerci”.
“Non è stato facile, sa? – racconta don Egidio – Non lo è nemmeno ora, ma da anni ormai c’è un cambio di prospettiva rispetto ai nostri inizi. Quando partimmo, infatti – ricorda – ci rivolgevamo agli adulti, a chi aveva alle spalle già un lungo percorso di criticità, dalla tossicodipendenza ad altre dipendenze.

Erano anni in cui in Italia si affacciava la piaga dell’Aids, che i medici nemmeno conoscevano, non comprendevano la patologia né sapevano riconoscerla. Ci accorgemmo che erano percorsi che portavano spesso a celebrare funerali, invece che a salvare vite. E ci siamo detti: dobbiamo cambiare, dobbiamo fare qualcosa di più, andare alla radice del problema”.

Per farlo il Centro fu chiuso un intero anno. Tempo di riflessione, e d’impostazione di una nuova strada, interamente dedicata ai giovani, agli adolescenti. “Fu difficile persino far capire cosa volevamo – spiega sempre don Egidio -. Le famiglie pensavano di poter fare tutto da sole, non si voleva far uscire il problema dalle mura di casa, e spesso si liquidava la cosa con ‘quattro sculacciate e lo rimetto al suo posto’. Ma non è così, purtroppo. E piano piano la nostra mano tesa ha iniziato ad afferrare quella dei ragazzi e delle ragazze che incontravamo in difficoltà”. La prima fu una ragazzina di 14 anni…

Già, perché qui al Ponte si parla di giovani, non di “drogati”: “E’ un modo sbagliato di affrontare il problema, quello fin troppo facile di appiccicare un’etichetta – spiega Giovanni Casarosa, psicoterapeuta e responsabile del Centro -. Definire un giovane drogato significa affibbiargli un correlato di pregiudizi pesantissimo: vuol dire considerarlo un mezzo barbone, disperato, delinquente; classificarlo come irrecuperabile.

Esattamente il contrario della verità. Sono ragazzi che hanno vissuto disagi fortissimi, il più delle volte non per colpa loro, che nella strada tortuosa e dolorosa della crescita si sono persi; e restano bloccati ‘dentro’. Sono ragazzi che hanno bisogno di ritrovare se stessi, certo, ma prima ancora di ritrovare un perno sul quale far leva per costruire il proprio futuro”.

Un Ponte, per reggersi, ha bisogno di pilastri. Don Egidio ne ha segnati quattro: “I ragazzi stessi, primi attori di questo percorso; gli educatori, che prendiamo solo laureati, preparati e che sottoponiamo costantemente a valutazioni, anche sul loro modello di vita personale; i sert, che quando ci sono vicini, con la loro professionalità diventano un riferimento importantissimo, rappresentando le istituzioni; e le famiglie, soggetto imprescindibile in un viaggio come questo…”

Tutti si è parte di un percorso di vita, tutti alla pari e tutti importanti, ognuno con il proprio ruolo. E’ la “pressione di gruppo” che fa esplodere l’energia positiva, la voglia di vivere, la forza di superare i problemi. Tutti “coinvolti” e non “travolti” dai problemi di ciascuno. Un insegnamento che dovrebbe essere scritto a caratteri cubitali per le strade del mondo.

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