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Perché ha vinto il No

La Costituzione funziona. Questa è la prima osservazione da farsi dopo la vittoria del No. L’articolo 138, diventato famoso nelle famiglie italiane, ha fatto il proprio dovere: ha rimarginato la spaccatura partitica registrata in Parlamento deferendo ai cittadini, 47 milioni più gli italiani all’estero, il compito di decidere. Per quanto la democrazia diretta sia difficile nelle società complesse e in qualche caso abbia dato risultati insoddisfacenti, tuttavia, quando la partecipazione sia massiccia (e come non rallegrarsi – tutti – del ritorno alle urne degli italiani) il voto referendario esprime una forza democratica autentica.

L’odiosa conduzione della campagna elettorale, peraltro non sorprendente, ha fatto credere che la fine del mondo fosse imminente e che l’innesco fosse il No. Quindi, oggi, la prima cosa da dire, da parte di chi si è schierato a difesa della Costituzione, è una semplice verità: non avremo la Carta più bella del mondo ma quella che abbiamo dobbiamo attuare.

Questo referendum, dovrà essere ricordato nella storia, non per essere stato troppo somigliante agli sguaiati episodi delle campagne inglesi ed americane ma per aver innescato nell’elettorato un processo irreversibile di costruzione di una nuova classe politica che, intessuta in libere formazioni, riceva consenso solo se si faccia garante ed attrice di un immediato processo di attuazione della Costituzione. Intendo dire che avremo bisogno di forze rappresentative che siano testimonianza vivente e quotidiana dei principi costituzionali e li abbiano a mente, in termini di conformità, in ciascuno dei propri atti assunti sotto la loro responsabilità, in Parlamento e nel Governo.

Per conseguire questo risultato è necessaria una buona legge elettorale e la base è la sentenza della Corte Costituzionale che ha tolto di mezzo l’obbrobrio antidemocratico del Porcellum. Deve esser chiaro che nessuna legge che ne sia continuazione logica – forse dovremmo dire – che faccia gli interessi dei partiti è fuori dalla Costituzione. Prima ancora che la Corte si pronunci, deve svilupparsi un anticorpo democratico, il controllo degli elettori-cittadini-persone. Questi dovranno gridare la propria fedeltà alla Carta ed “intimorire” ogni forza politica che provi ad aggirarla, al servizio di questo o quell’interesse lobbistico, nazionale od internazionale.

Non è l’Italia il solo Paese a sperimentare un tempo politico nel quale si debbano rivedere i punti di equilibrio tra rappresentanza e governabilità. Le scorciatoie prese in altri ordinamenti, lo testimonia la storia, li hanno proiettati in vicoli ciechi. Noi vorremmo che fossero espulsi meccanismi truffaldini, a cominciare da premi di maggioranza, essi si incostituzionali, ed espulse le forze che li hanno somministrati in questi anni. I partiti della Prima Repubblica sono stati sommersi dal discredito della corruzione; i loro successori hanno aggiunto a chiare tentazioni malavitose una disperante incapacità di Governo. La governabilità è figlia di buone leggi e di grandi intelligenze, e di inclusività che metta in grado di arricchire la comunità di tutte le risorse che possiede. Partiti e neoformazioni hanno costruito nel ventennio berlusconiano recinti ad excludendum e, fuori, è rimasto ciò che di meglio il Paese possiede, la sua secolare storia di intelligenza politica che ha fatto di un piccolo Paese, non particolarmente ricco di risorse naturali, un grande Paese.

In Terris, per primo, ha inaugurato una tribuna della verità referendaria. Gli chiediamo di aprire una tribuna del cambiamento democratico. E, sia chiaro, nessuno pensi di nascondersi nelle pieghe della democrazia per ucciderla. Finalmente possiamo tornare a pronunciare questo straordinario monosillabo che è il Sì: si alla nostra Costituzione, si alla lealtà nei suoi confronti, si alla democrazia, si allo sviluppo.

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