Nove novembre 2014: c’è fermento al Villaggio della gioia di Forlì. Sono appena finiti i lavori di costruzione di sei nuovi appartamenti, destinati ad accogliere nuclei familiari in difficoltà per prevenire la separazione dei minori dai loro papà e mamme. Già da cinque anni, tre case famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII vivono al “Villaggio”, accogliendo sotto il proprio tetto persone bisognose ed anche alcuni nuclei “mamma-bambino”.
Ora si realizza il secondo fondamentale passo del progetto, fortemente voluto da don Benzi negli ultimi anni della sua vita. Ne parliamo a ruota libera con i responsabili della struttura: Annalisa e Daniele, Miriam e Roberto, Elisabetta e Daniele.
Come è iniziata la seconda fase del “Villaggio della gioia”?
“L’accoglienza nei nuovi appartamenti è avvenuta proprio nello spirito di don Oreste: una famiglia Rom proveniente da Torino, già precedentemente accolta in una nostra casa del cuneese ma poi tornata a vivere in una situazione di forte degrado. Una mamma, un papà, cinque bambini dai sette anni in giù: coloro che nessuno vuole, senza documenti, senza soldi, senza un servizio sociale alle spalle, con problemi di salute, di integrazione. Per noi è stato un inizio vissuto all’insegna della gratuità e della fiducia. A due anni di distanza possiamo dire che, pur con difficoltà, il cammino svolto assieme a loro è stato molto bello e ricco, e si sono raggiunti obiettivi importanti di inclusione, dall’ottenimento dei documenti all’inserimento scolastico e nel territorio. È nata una bella amicizia”.
Qual è l’obiettivo del progetto?
“Il Villaggio della gioia nasce per evitare l’allontanamento dei bambini dai loro genitori, laddove non esistano rischi per la loro integrità: il trauma della separazione è spesso difficile da superare non solo per i piccoli, ma anche per la loro famiglia, che si sente oppressa dal senso di colpa e può perdere motivazioni all’impegno ed al cambiamento. Le nostre tre famiglie hanno una buona esperienza di affidamenti familiari: ricordiamo un bimbo di 5 anni che, allontanato dai genitori e appena arrivato in casa famiglia, chiedeva: ‘Perché io sono qui?’. Con questa domanda, voleva sapere perché, se i suoi genitori avevano dei problemi, proprio lui che non aveva colpa era dovuto andare via. La risposta dell’affidamento familiare è sempre ottimale quando non ci sono alternative, ma con questo progetto abbiamo voluto cercare una risposta nuova, una risposta in più. Proprio dal grido di dolore, spesso silenzioso, è nata l’idea di creare un luogo in cui accogliere l’intero nucleo familiare, aiutandolo nel suo percorso di superamento delle difficoltà”.
Come si struttura il vostro intervento?
“Puntiamo sul rapporto fra famiglie accolte e famiglie della Comunità. Viviamo tutti nello stesso piccolo borgo, con occasioni strutturate ed anche informali di relazione, che permettano la trasmissione di comportamenti, valori, modelli educativi, scambi di esperienze a partire dalla concretezza della quotidianità. Un’équipe di operatori, non residenti al Villaggio, supporta nelle varie attività di accompagnamento ed educative: rapporti con le scuole, i servizi sociali e sanitari, le aziende per ricerca del lavoro… L’intervento specialistico sposa quindi la condivisione diretta di vita”.
Quali risultati puntate ad ottenere?
“Vogliamo aiutare questi papà e queste mamme a trovare il modo migliore possibile, a partire dalla loro situazione concreta, per gestire il rapporto fra loro e con i figli, e per intraprendere un percorso di reale inclusione sociale. La permanenza al Villaggio dovrebbe durare al massimo 18 mesi, durante i quali svolgere sia le azioni di accompagnamento e di tipo educativo, sia anche un’osservazione delle capacità genitoriali che serva ai Servizi sociali, se presenti, per definire la prosecuzione del percorso”.
Perché una permanenza limitata nel tempo?
“Non vogliamo muoverci in una prospettiva assistenzialistica, ma puntiamo a sviluppare le risorse interiori ed esterne utili per l’autonomia, che in certi casi non potrà essere totale, ma va comunque perseguita per quanto possibile ad ogni persona e ad ogni nucleo familiare. Di fatto continuiamo ad essere punti di riferimento per alcune delle famiglie che abbiamo seguito, proprio in virtù del rapporto di amicizia che si è instaurato. Per promuovere l’autonomia è molto importante la costruzione di reti sul territorio, con gli enti locali, con associazioni e cooperative, per dare risposta ai bisogni di tipo abitativo, lavorativo e relazionale”.
Quali sono le difficoltà e le speranze che state vivendo in questo cammino?
“Ci troviamo di fronte a situazioni perlopiù molto difficili, e riuscire ad individuare il modo migliore per intervenire in modo appropriato in ognuna di esse non è semplice, nonostante l’esperienza ormai lunga di condivisione in casa famiglia e di intervento in favore di persone con difficoltà. Abbiamo avuto conferma che ogni famiglia è portatrice di una propria individualità irriducibile: la permanenza al Villaggio porta a rendere più chiara questa identità ed a riprendere la strada con rinnovate energie. Spesso la direzione intrapresa dalle nostre famiglie non corrisponde all’idea che noi ci eravamo fatti, ma in queste scelte leggiamo un’assunzione di responsabilità ed un’attestazione di libertà che ci riportano al cuore dell’esperienza umana”.
Tratto da “Sempre”