Davide, 53 anni, malato di sclerosi multipla dal 1993 ha deciso di arrendersi alla malattia e si sta recando in Svizzera per sottoporsi al suicidio assistito come, nell’ultimo periodo, hanno fatto altri italiani, tra cui Fabiano Antoniani, in arte Dj Fabo. Insieme a lui Mina Welby, co-presidente dell’associazione “Luca Coscioni“. A diffondere la notizia è stato Davide Cappato, indagato dalla Procura di Milano per l’aiuto al suicidio dello stesso Fabo, sulla sua pagina Facebook.
La storia
Davide vive in Toscana e ha deciso di morire perché non vuole più vivere “con il dolore addosso tutto il giorno” e perché ritiene che la sua “non sia più una vita da vivere ma una condanna da scontare”. A fine 2016 ha preso la decisione di ricorrere all’eutanasia, che definisce “una liberazione, un sogno, una vacanza”. La madre, una donna di 73 anni con molti problemi di salute, “soffre ma lo capisce” sostiene l’associazione.
Prima di ammalarsi Davide, di professione barista, “amava il calcio e la musica aveva tante idee e la forza di realizzarle”. Poi, a un certo punto, ha iniziato a non sentire più una parte del corpo. Erano i primi sintomi della sclerosi multipla. “Col passare degli anni la malattia è diventata sempre più insopportabile e crudele. Da mesi non riesce più a far nulla, compreso mangiare e dormire. Passa le giornate a letto o in sedia a rotelle, con uno stimolo costante di andare in bagno”. Oggi “assume farmaci molto forti contro il dolore, più di quindici al giorno, compreso il metadone – che ha importanti effetti collaterali – anche se ormai non sono più efficaci. Solo la cannabis terapeutica, fornita dalla regione Toscana, gli dà sollievo”.
Cultura dello scarto
Una condizione terribile, una sofferenza per la quale occorre avere il massimo del rispetto. Eppure bisogna ribadire che, sia pur di fronte a un dolore immenso, la risposta non può e non deve essere la morte. Esistono centinaia di malati che riescono ad affrontare la propria condizione con dignità, grazie all’assistenza delle persone care. Ma la cultura dominante dipinge il malato come una persona senza più possibilità, destinata a essere relegata ai margini della società, a vivere nella sofferenza. Col risultato che quando la malattia ci attanaglia quella di farla finita sembra essere l’unica soluzione possibile.