E se il ponte naturale sullo Stretto di Bering, durante l’ultima era glaciale, fosse stato attraversato dall’uomo non 20 mila ma, addirittura, 130 mila anni fa? Sarebbe una scoperta epocale, come affermato da molti paleontologi. Senza dubbio, costringerebbe la comunità scientifica a riscrivere gran parte della storia del Nord America, quantomeno delle prime colonizzazioni dall’Asia, finora generalmente attribuite all’Homo sapiens. Secondo una recentissima (e discussa) ricerca, pubblicata sulla rivista “Nature”, tale affermazione non sarebbe del tutto esatta: analizzando alcune ossa di mastodonte (antico progenitore dell’odierno elefante) rinvenute dal paleontologo Thomas Deméré nel 1992, in California, i ricercatori avrebbero riscontrato quelli che sono stati ritenuti probabili segni di mano umana. Nello specifico, lavorazioni rudimentali, tacche e spaccature attribuibili a forti colpi di pietre, molte delle quali peraltro rinvenute nel medesimo sito contenente i resti dell’animale. Una nuova finestra di dibattito, oltre che di studio.
Uomo in America: un balzo di 100 mila anni… all’indietro
La rivelazione, effettivamente, è di una certa rilevanza: se le affermazioni degli studiosi dovessero rivelarsi esatte, tutti i dati e gli studi portati avanti finora vedrebbero un balzo vertiginoso indietro di oltre 100 mila anni sulla linea del tempo, ribaltando completamente il come e il quando dell’arrivo umano sul futuro continente americano: “Abbiamo preso in considerazione un gran numero di possibilità per spiegare l’insieme di ossa e pietre – ha detto Deméré -, e l’unica ipotesi che ha superato il nostro vaglio è che gli esseri umani fossero in qualche modo coinvolti”. In sostanza, il sito californiano proverebbe che la presenza in America degli antenati dell’uomo sia da considerarsi antecedente a quella concordata negli ultimi 10 anni. In particolare, ad aver attraversato l’odierno stretto fra l’Alaska e la Siberia, potrebbero essere state specie precedenti ai Sapiens, come i Neanderthal o, addirittura, alcuni rappresentanti dell’Homo di Denisova, un misterioso progenitore vissuto in un periodo compreso tra 70 mila e 40 mila anni fa, recentemente scoperto (2010) sui Monti Altaj.
Critiche e scetticismo
La questione della retrodatazione emerse già negli anni ’90, a seguito della scoperta del sito di San Diego. La misurazione con il radiocarbonio, inefficace sui resti del mastodonte che non presentavano tracce di proteine collagene con carbonio, è stata rimpiazzata dalla più recente misurazione dei livelli relativi di uranio e di torio radioattivi nell’osso. Il risultato: le ossa “lavorate” risalivano a 130 mila anni prima della nostra epoca. L’analisi, effettuata da Kathleen e Steven Holen (Center for American Paleolithic Research), inizialmente scettici sulla questione, è stata successivamente ritenuta corretta anche da altri ricercatori. Pochi dubbi, quindi, sull’età delle ossa. Molti, però, restano ancora fortemente dubbiosi riguardo alle presunte tracce di mano d’uomo, e non sono pochi i paleoarcheologi che hanno avanzato la richiesta di esaminare da vicino i risultati della ricerca demereriana oltre che i resti del mastodonte: l’obiettivo è capire se, davvero, le spaccature presenti siano da attribuire a colpi di braccia o se alla loro “lavorazione” abbiano contribuito altri elementi. Di certo, le analisi saranno particolarmente approfondite: il “rischio” è di dover rimettere mano ad affermazioni storico-scientifiche date finora per certe. Ma, per arrivare a questo, le prove dovranno essere inconfutabili.