Ernesto siede avvolto dal suo impermeabile stropicciato sul gradino di un negozio del centro. Il volto rugato, il sigaro in mano. Mentre sorseggia un bicchiere di tè offerto dai volontari, mi racconta che ha cinquant’anni, ha perso il lavoro ed è troppo vecchio come disoccupato e troppo giovane per essere un pensionato. Poi va dritto al sodo: “Scrivi! Scrivi che noi siamo i bancomat delle istituzioni! Ci sono troppi enti e associazioni che campano sulla nostra povertà”.
Manichini come amici
Pochi metri più avanti sotto il portico c’è Giuseppe, barba e capelli lunghi che in un altro contesto farebbero pensare a Babbo Natale. Sta allestendo la sua camera da letto. Viene dal sud, da 6 anni dorme in strada. “Ho una buona compagnia – ci spiega mentre allunga per terra il sacco a pelo –: i manichini dentro la vetrina del negozio. Ma loro sono vestiti bene e cambiano vestito tutti i giorni, io invece ho sempre lo stesso”. Dopo tante delusioni, ci spiega, è difficile cambiare vita, ricominciare a fidarsi, troppo stress… “Quando sono arrivato qui mi hanno regalato dei fili colorati e ho iniziato a fare dei braccialetti perché non posso stare senza fare niente e chiedere l’elemosina. Qualcosa devo vendere per mangiare“.
Al fianco dei senzatetto
È Ivan della Comunità Papa Giovanni XXIII ad accompagnarci nell’incontro col popolo della notte milanese. Insieme a lui anche Daniela, Gianfranco, don Federico e decine di giovani, qualcuno alla prima uscita. Sono le 22, piove a dirotto e il centro si trasforma. All’ombra della bela madunina del Duomo di Milano, ogni notte trovano rifugio oltre cinquanta senzatetto, giovani, anziani, disoccupati o precari, gente nata nel disagio e gente invece oppressa dai fallimenti della vita. A Milano tanti vengono a trovare rifugio durante
l’inverno (il 30% circa dei senzatetto d’Italia) perché nella metropoli del nord si trovano ogni giorno associazioni che ti offrono da mangiare, un posto dove fare la doccia o un dormitorio.
Attvità
Per la Comunità Papa Giovanni XXIII tutto è iniziato nel 2001 presso la chiesa di San Vito al Pasquirolo. Era il cardinal Martini che aveva voluto un servizio alle persone senza dimora. Tanti giovani coi membri dell’Associazione sceglievano un sabato al mese di pregare con i senza fissa dimora, continuando durante la notte a cercare quelli più soli, più per costruire una relazione di fiducia che per dare una busta della spesa. Per questo, pur cambiando luogo di ritrovo, anche oggi dopo oltre 15 anni a Milano si ritrovano una volta al mese decine e decine di ragazzi che vogliono “sporcarsi le mani” con gli ultimi non per curiosità o per turismo sociale. Tanti capiscono che quegli incontri possono cambiare la vita. La qualità della relazione instaurata di incontro in incontro fa scoprire che le persone senza dimora sono interlocutori alla pari, bisognosi di dignità e protagonisti della loro storia.
Condivisione
“Sono tante le associazioni che ogni notte portano da mangiare ai poveri in strada. Ma non è questo il nostro obiettivo. Diceva don Oreste di non rendere piacevole la strada al povero. Vogliamo incontrare questi amici e intessere una relazione con loro. Molti li conosciamo bene e sanno che quando vogliono lasciare la strada possono contare su di noi. C’è una casa che li aspetta”, ci spiega Ivan mentre ci avviciniamo ad un bulgaro che sta preparando il suo posto letto, incastrando cartoni come un architetto. Quest’uomo ci racconta che fa il bagnino sulla riviera romagnola d’estate ma per qualche mese, buttato fuori casa dalla compagna, dovrà viverlo sotto i portici. Altri l’unità di strada della Comunità li ha accolti nella Capanna di Betlemme di Milano, pronta accoglienza notturna dove gli “invisibili” non ricevono solo un tetto sulla testa ma riscoprono il proprio nome e cognome.
Preghiere in Galleria
E’ ormai mezzanotte e insieme ai senzatetto le equipe di strada si ritrovano nella galleria che di giorno è abitata dalla “Milano bene” per acquisti a prezzi strepitosi. Tutti in cerchio, è il momento della lettura del Vangelo e delle preghiere spontanee per non dimenticarsi gli uni degli altri. La pioggia, fino a pochi minuti prima torrenziale, non si sente più. Il calore umano è più forte e il desiderio di reciprocità fa dimenticare il sonno. Salvatore, un poeta un po’ sdentato, mi mostra una sua poesia che riscalda il cuore. È rivolta ad una donna che incontra spesso in centro e che spera possa innamorarsi di lui. “Quando ti vidi per la prima volta… sembrava di stare in un villaggio incantato… Tutto appariva magico”. Di fronte a quella spontaneità e agli occhi lucidi di questo omone molto più alto di me, le sue metafore – a me che scrivo da quando avevo sedici anni – sembrano molto più vive delle mie.
L’esperienza
Certe notti i portici diventano davvero luoghi di confidenza in cui incoraggiarsi a credere nell’amore, anche se senzatetto. È ora di andare a dormire e ci salutiamo. Di fianco a me c’è Francesca, giovane insegnante della scuola materna, che dopo essere uscita in strada come volontaria ha scoperto che le persone senza fissa dimora le stanno cambiando la vita. “Parlando un po’ con chi vive la strada ho capito che ognuno ha un bisogno enorme di essere visto, di sapere che esiste per qualcuno, di non essere più invisibile. Anche se io avevo la mia casa, il mio lavoro e la mia indipendenza, in fondo questo bisogno era vero anche per me. Per questo oggi vivo alla Capanna di Montodine con chi decide di rimanere con noi scoprendo che ci può essere una famiglia a cui fare ritorno”.
Accoglienza
Oltre alla Capanna di Milano che dal 2010 ha collaborato col Centro Aiuto Stazione Centrale e nel Piano di Emergenza freddo, esiste un’altra Capanna a Spino d’Adda (in provincia di Cremona), dove le persone arrivate per trascorrere una o più notti trovano un contesto di vita familiare, una struttura residenziale dove le relazioni diventano stabili ed è possibile iniziare un nuovo percorso verso l’autonomia. E infine la Capanna di Montodine, inserita nel contesto dell’Oratorio dove chi è uscito dalla strada può sperimentarsi in laboratori e progetti occupazionali per sentirsi di nuovo protagonista della propria storia.
In stazione
La notte a Milano finisce intorno al Duomo. Mentre faccio memoria anche delle strade della prostituzione, quelle di periferia piene di giovani rumene o di trans, c’è un’altra fetta di popolo della notte che ci aspetta. All’1.30 insieme a Ivan e don Federico scendiamo nei sottopassi della stazione di Milano Rogoredo. Incontriamo Francesco che sta cercando ansiosamente una sigaretta. Non sa neppure lui perché è lì e anche se si sente “marcio” dopo un po’ ci confessa: “In comunità non ci riesco ad andare io, perché ho bisogno di essere libero”. E scatta spontanea la domanda “Ma perché, sei libero adesso?”. Prima ammutolisce e poi inizia a raccontare la sua storia a don Federico come un fiume in piena.
Dal binario 1 scende Giovanni che invece in comunità c’era già. Dovrebbe rientrarvi in quella notte ma è in confusione: troppe regole, niente tv, niente sigarette… Ci chiede: “Ma non avete voi una casa-famiglia per me?”. Non è facile capire quanto i volti che incontriamo sono di persone lucide e motivate, ma sono volti che parlano di mancanza di amore e anche di una sete infinita di qualcuno che ascolti senza giudicarli… qualcuno di cui fidarsi per uscire dal mondo delle dipendenze.
Il popolo della notte
Bisogna saper ascoltare, osservare pazientemente e spesso saper aspettare il momento giusto. Come con Mirela, rannicchiata in un’area di ristoro, che si sente al sicuro vicino a quei distributori di bevande e snack, dove si ritrovano sfatti a dormire i tossici di quella zona. Ci parla della sua vita come sfogliasse un album di foto con gli amici di sempre. Ma ogni pezzo di storia lo sentiamo come uno schiaffo in faccia per la violenza e l’ingiustizia che nasconde. Alla fine ci chiede dove potrà trovarci e le lasciamo un numero di telefono. Tornando a casa tutte quelle storie risuonano dentro a chi le ha incrociate e cresce una sorta di fascino verso quella notte così intensa anche se apparentemente sporca, verso quei portici, quelle pensiline della stazione, quei giardini e soprattutto chi li abita quotidianamente. Ciò che spinge al prossimo incontro è la forza della condivisione e la speranza che quella “filiera della rieducazione”, maturata tra i giovani cresciuti di mese in mese in ginocchio nella Chiesa del Pasquirolo e poi in strada incontro agli ultimi, possa in qualche provvidenziale passaggio essere occasione di rinascita per questa umanità ferita.
Tratto da “Sempre“