Una settimana fa il dott. Enrico Silvio Bertini si è recato a Londra, al Great Ormond Street Hospital. Qui ha visitato il piccolo Charlie Gard, nel tentativo estremo di saggiare un barlume di speranza per curare il bambino affetto da una rara malattia degenerativa.
Il responsabile del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’ospedale Bambino Gesù ha dovuto però constatare che le condizioni del tessuto muscolare del piccolo Charlie erano gravemente compromesse. Bisognava intervenire prima, come lo stesso Bertini ha spiegato in un incontro con In Terris e con altri giornalisti nel pomeriggio di ieri.
Dott. Bertini, cos’è che non ha funzionato nel caso Charlie Gard?
Secondo me qualcosa non ha funzionato nel rapporto medico-paziente, soprattutto all’inizio. E questo ha determinato un contenzioso legale che ha bloccato il piccolo all’opzione della cura palliativa. Mi risulta che all’inizio era stata proposta una terapia, ma per controversie che possono sorgere tra medici in casi di malattie molto rare come quella di Charlie, non è stata percorsa questa strada. È in questo momento che si è rotto un dialogo fiduciario con i genitori e che si è andati a finire in Tribunale.
L’Ospedale Bambino Gesù avrebbe provato a curare il bambino?
È istintivo per chi lavora in questo campo tentare terapie alternative. È nostra attitudine come ospedale quella di saggiare anche ogni piccolo barlume di soluzione per affrontare malattie rare. Prima di tutto avremmo consultato il comitato etico, ma comunque non siamo abituati a interrompere la ventilazione meccanica.
Lei ha visitato Charlie? Che impressione ha avuto?
Sì, l’ho visitato una settimana fa. Il bambino era attaccato al ventilatore e non si muoveva affatto. Aveva soltanto una reattività pupillare con la luce e aveva una minima tachicardia quando gli veniva pressato un ditino per evocare uno stimolo doloroso. Ma per il resto aveva una faccia inespressiva, una debolezza muscolare molto grave. Insomma, era una situazione compromessa.
Si è molto dibattuto in questo caso intorno al concetto di accanimento terapeutico o clinico. Qual è il suo parere?
In senso generale l’accanimento terapeutico subentra quando una terapia è molto rischiosa e non ha effetti benefici sul paziente. Però nei casi in cui della malattia non si conosce il suo decorso, come quelle mitocondriali, è difficile stabilire quando avviene l’accanimento terapeutico.
Nel caso di Charlie si può parlare di accanimento?
Noi quando siamo stati a Londra abbiamo riaperto il fascicolo della terapia e abbiamo stabilito dei limiti. Abbiamo fatto tutto in scienza e coscienza.
I genitori vorrebbero portare il piccolo a morire a casa. È un’ipotesi a suo avviso percorribile?
È importante ascoltare i genitori finché è possibile. Nel caso specifico, la decisione è abbastanza complicata, vanno valutati diversi aspetti. Se toccasse a me decidere, mi consulterei con il comitato etico, prenderei quindi una decisione collegiale.
Cosa insegna la vicenda di Charlie?
Che bisogna guadagnare la fiducia dei genitori. Questi ultimi devono avere l’impressione che tutto viene fatto per aiutare loro figlio. Se ciò non avviene, come credo non sia avvenuto nel caso Charlie, allora subentrano situazioni spiacevoli come un lungo contenzioso legale.
Contenzioso legale che ha tolto tempo prezioso per intervenire con una terapia?
È un dato di fatto. In questo gruppo di malattie, metaboliche e progressive, prima si interviene e meglio è. Ma il tempo in certi casi è un concetto relativo, perché non si conosce bene la malattia e il suo percorso, essendo molto rara. Dunque è difficile trovare delle responsabilità. Piuttosto parlerei di opportunità: la terapia sperimentale con deossinucleotidi poteva essere un’opportunità per Charlie e in futuro potrà esserlo per altri malati di patologie simili.
Da Londra alcuni medici hanno accusato il prof. Hirano, luminare statunitense che ha proposto la terapia alternativa per Charlie, di farlo per interessi economici. Lei che era in contatto con Hirano, cosa pensa di questa accusa?
Argomenti di questo tipo aleggiano sempre in casi clinici particolari. Va detto che le industrie che producono nuclediti sono piccole, non fanno molti profitti, dunque il giro di denaro non è enorme. E poi mi risulta che il prof. Michio Hirano abbia esplicitamente scritto che non avrebbe preso alcun indennizzo per questa terapia, anche perché sarebbe rimasto tutto in una fase sperimentale, senza garanzia di successo.