Dopo un quasi ventennio di stallo politico e diplomatico, seguito alle atrocità di dieci anni di guerre fratricide, i Balcani stanno tornando ad occupare un posto di rilievo nelle agende politiche delle potenze mondiali. La frammentazione dell’ex Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia ha immediatamente sollevato la necessità, per Russia e blocco Nato, di stabilire delle zone di influenza al fine di mantenere la precaria stabilità politico-sociale implementata sulla base degli accordi di Dayton del 1995, nonché evitare la penetrazione di una delle due forze in una regione strategicamente decisiva e non solo per via del suo sbocco sul Mediterraneo.
Come prevedibile, la Russia sta tentando – spesso vanamente, c’è da ammetterlo- di contenere l’espansione delle strutture militari atlantiche nei Balcani, nonostante possa contare soltanto sul suo storico alleato, la Serbia, Paese fortemente mutilato nei suoi territori e nelle sue aspirazioni geopolitiche in seguito alla fine dei conflitti jugoslavi che hanno visto Belgrado cedere sia alla pressione indipendentista delle comunità albanesi delle regioni simbolicamente “sacre” di Kosovo e Metochia (dichiaratesi unilateralmente indipendenti nel 2008 con l’appoggio degli Stati Uniti ed in violazione alla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu), sia all’indipendenza del Montenegro dichiarata nel 2006.
Le adesioni all’Alleanza Atlantica di Croazia, Slovenia, Albania, Montenegro, Romania e Bulgaria, nonché le pressioni date dal “processo di Berlino” per l’ingresso dei Balcani nell’Ue, stanno “soffocando” la Serbia, la quale, messa alle strette sia da ragioni militari che economico-politiche, tra conferme e smentite, stava tentando di stipulare un’intesa per risolvere definitivamente l’impasse diplomatico nei confronti di Pristina: il Presidente serbo Aleksandr Vučić si sarebbe dichiarato favorevole alla “razgraničenje”, ossia alla “delimitazione” dei confini con il Kosovo, riconoscendone l’indipendenza ma ricevendo in cambio il controllo totale di diverse municipalità situate nel nord dell’ex provincia a maggioranza etnica serba.
Verso la fine di luglio, alcuni quotidiani serbi hanno dato ampio credito a queste ipotesi, cavalcando l’onda dello sdegno delle opposizioni e della suscettibilità della popolazione (anche per via della palese incostituzionalità della proposta) paventando anche l’addestramento, per mano statunitense, che la polizia kosovara starebbe ricevendo (al fine di trasformarsi in un vero e proprio esercito), nonché un piano sviluppato da Pristina per acquisire il controllo di tutte le infrastrutture logistiche e strategiche fondamentali per la sopravvivenza del nord dell’ex provincia (ricordiamolo, a maggioranza serba). In questo scenario è possibile inquadrare la recente provocazione operata dalle forze kosovare sul confine, presso il lago di Gazivoda: circa una sessantina di uomini armati avrebbero fatto irruzione presso la strategica centrale idroelettrica controllata da Belgrado, provocando l’allerta immediata delle forze speciali serbe. Pristina ha fatto sapere di aver solo provveduto a scortare il Presidente kosovaro Hashim Thaci, in visita nella zona contesa.
Nei giorni scorsi, Vučić è stato ricevuto a Mosca da Vladimir Putin, il quale ha ribadito ulteriormente l’importanza del legame russo-serbo. Nonostante anche il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov abbia ribadito quanto sia prematuro, per Mosca, parlare di un appoggio militare russo nei confronti di Belgrado, dal 1° al 5 ottobre si sono svolte, in territorio serbo, le esercitazioni aeree congiunte russo-serbe che hanno visto coinvolti sia i caccia MiG-29 che gli elicotteri Mi-8, impegnati nelle attività di “air combat”, intercettazione e riconoscimento degli obiettivi strategici, nonché in attività di “search&rescue”.
Il ripristino di una zona di influenza russa all’interno dei Balcani sempre più “atlantici” è ritenuta prioritaria anche per facilitare la creazione degli hub energetici necessari allo sbocco europeo del futuro Turkish Stream: la Macedonia, ad esempio, rappresenta un tassello fondamentale per decidere una delle tante partite giocate tra Mosca e gli Stati Uniti nello scenario della “guerra energetica”. Il recentissimo referendum sulla validità dell’accordo di Prespa (siglato tra il premier macedone filo atlantista ed europeista Zoran Zaev ed il suo omologo greco Alexis Tsipras riguardo alla denominazione ufficiale da adottare per la Macedonia) non ha raggiunto il quorum stabilito: soltanto il 34% della popolazione si è recata alle urne, annullando di fatto l’intesa tra Skopje ed Atene.
La questione della disputa con la Grecia per la denominazione è l’ultimo ostacolo che separerebbe la Macedonia dal formulare ufficialmente la richiesta di ingresso nella Nato e nell’Ue (non è possibile, all’interno dell’alleanza atlantica, che uno Stato membro non riconosca un altro). Il Paese, da trent’anni zavorrato da una profonda crisi identitaria, rischia di andare incontro ad un ulteriore sanguinoso smembramento: anche qui, come in Kosovo, la comunità albanese, fomentata dall’idea -in verità, mai del tutto scoraggiata da Tirana- di ricostruire la Grande Albania, rappresenta il 27% del totale. In questo contesto, Mosca dovrà tentare di preservare lo status quo fermando l’emorragia causata da un processo nato per mantenere l’influenza occidentale sulla regione, quello della “balcanizzazione”, tanto caro a studiosi come Thual e Brzeszinski, quanto dannoso e, alla lunga, fortemente destabilizzante per i Paesi coinvolti.