È passato un secolo da quando un giovane sacerdote siciliano, don Luigi Sturzo, pronunciò il celebre appello destinato a cavare una massiccia sacca elettorale dalle paludi del “non expedit”. Dopo decenni in cui i cattolici italiani, su indicazione di Pio IX, avevano rifiutato lo Stato unitario e la partecipazione alle elezioni, il Partito Popolare Italiano offrì loro una forza in cui riconoscersi. Il Ppi ebbe vita breve (sette anni dopo la nascita fu fatto sciogliere dal regime fascista), ma incise profondamente nell'Italia del Novecento. Il suo scudo crociato disegnato in modo rudimentale nel 1919 era destinato a rifulgere nel secondo dopoguerra e negli anni del miracolo economico con la Democrazia Cristiana, fino a conoscere una parabola discendente iniziata con la fine della Prima Repubblica. Oggi i cattolici non sono più un unico corpo elettorale, trasmigrati da un pezzo in diversi lidi elettorali oppure tornati all'astensione. Della possibilità di tener viva l'eredità popolare e democristiana se ne discute oggi alla Camera, nel corso della conferenza 1919-2019. Popolari oggi, da Sturzo al nuovo millennio. La relazione introduttiva è affidata a Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2. In Terris lo ha intervistato per conoscere uno dei diversi punti di vista sul tema.
Come nasce il popolarismo e cosa lo caratterizza?
“Occorre anzitutto inquadrare il contesto storico della nascita del Ppi: è l'Italia di inizio XX secolo, dove la rivoluzione industriale, arrivata in ritardo rispetto ad altri Paesi europei, porta alla ribalta nuove soggettività economiche – penso ad esempio alla Fiat – da cui scaturiscono l'inurbamento, i ceti operai, il rafforzamento della classe media; tutti elementi propedeutici alla nascita di grandi partiti popolari quali i socialisti e, appunto, il Ppi. Secondo me popolarismo significa capacità di trasferire in sede politica e programmatica quelle istanze recepite in basso: un partito popolare sa essere una cinghia di trasmissione all'interno della società”.
Oggi si parla piuttosto di populismo: è una deriva demagogica?
“In molti lo ritengono, ma io personalmente non mi iscrivo a questa schiera. Io faccio riferimento a Fedor Dostoevskij quando nel 1880, incaricato di fare una commemorazione del grande drammaturgo Aleksandr Puskin, decide di intervenire sul tema del populismo definendolo la capacità di ascoltare e recepire i bisogni della gente. E ciò ha una valenza positiva”.
Dunque a suo avviso esiste una linea di continuità tra popolari e populisti?
“Il confine tra popolarismo e populismo è molto labile. Il popolarismo è forse più strutturato, ma l'animus di base non è assolutamente diverso, nasce dalla medesima volontà di rispondere alle esigenze che nascono nel basso”.
Il mondo tuttavia è cambiato molto. Don Sturzo affermava: “Il silenzio è d'oro, specialmente in politica”. Oggi, iperconnessi come siamo tutti, esponenti politici compresi, è ancora possibile far proprio questo invito?
“Credo che don Sturzo, più che al silenzio in senso letterale, volesse riferirsi alla capacità di realizzare prima ancora che parlare. Il suo era un invito ad attuare una politica concreta, che limitasse le enunciazioni a vantaggio dei fatti sostanziali”.
Oggi c'è bisogno di rispolverare un tale insegnamento?
“Assolutamente sì, fermo restando che il mondo è cambiato e la comunicazione sta diventando un fatto rilevante: le leadership si costruiscono anche attraverso la capacità di comunicare”.
In queste ore si sta parlando della possibilità di ricreare un fronte politico cattolico, riunito magari intorno alla figura di Enrico Letta. Che ne pensa?
“Non credo alla possibilità di ricreare un soggetto politico del genere. In primo luogo perché la religione sta diventando sempre più un fatto personale, che presume un rapporto diretto con Dio, senza intermediazione. Diciamo che il cattolicesimo sta assumendo una forma calvinista o luterana: un tempo i cattolici seguivano le indicazioni anche politiche della gerarchia; invece oggi vanno in chiesa, pregano, ma non si lasciano condizionare politicamente dalle gerarchie. E poi Letta non mi pare la personalità adatta: sono suo amico, è una bravissima persona, molto per bene e a modo, ma è l'espressione dell'elite ultra-europeista che con il pensiero di Sturzo non c'entra nulla”.
C'è qualcuno che oggi c'entra con il pensiero di don Sturzo?
“Il partito che più si avvicina alle posizioni del partito popolare e cattolico è la Lega. Lo testimoniano anche i flussi elettorali. In Veneto la Lega è l'erede della Democrazia Cristiana, che nel 1966 prendeva il 53% dei voti; oggi significative percentuali le raccoglie il Carroccio. Ed anche in Lombardia succede qualcosa di molto simile”.
A cosa attribuisce questa trasmigrazione elettorale? Possibile che i partiti sovranisti in generale vengano visti come più affidabili, ad esempio, sul fronte dei “principi non negoziabili”?
“Sì, mi sembra una lettura calzante. Del resto chi è, ad oggi, il ministro che più si fa carico dei problemi della famiglia? Chi è che cerca di tutelarla e promuoverla? Il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, che è un cattolico a tutto tondo: l'elettorato lo percepisce così, mentre altri vengono visti come espressione delle elite”.
Quanto può aver influito sulla crisi del voto cattolico l'indebolimento degli oratori e delle parrocchie come luoghi d'aggregazione sociale?
“Non esistono nemmeno più le sedi dei partiti: al luogo fisico si è sostituito quello telematico. Oggi le piazze si sono svuotate a vantaggio dei gruppi di whatsapp e dei social network. Possibile che si tratti di un fatto negativo, ma sicuramente è un fatto”.
Qual è l'eredità di don Luigi Sturzo?
“È una grande radiografia dello spirito italiano: lui era un clericale, ma in un certo senso laico, in quanto ebbe la capacità di inquadrare laicamente l'essere italiano trasferendolo in politica”.