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Quell'elite che controlla le ricchezze del pianeta

Correva l’anno 1968, epoca di contestazioni e di illusioni di cambiamento, quando il sociologo americano Robert K. Merton affermava: “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Parole che sembrano quantomai profetiche oggi, cinquantuno anni dopo, leggendo l’ultimo Rapporto Oxfam su povertà e diseguaglianze uscito in concomitanza con l’apertura del Forum economico di Davos. Secondo lo studio dell’organizzazione, l’1% più ricco possiede metà della ricchezza aggregata netta totale del pianeta (il 47,2%), mentre 3,8 miliardi di persone, che corrispondono alla metà più povera degli abitanti del mondo, possono contare sullo 0,4 per cento. E ancora: nel mondo una elite di 26 ultramiliardari possiede una ricchezza equivalente a quella della metà più povera del pianeta. In Terris ne ha parlato con Mikhail Maslennikov, policy advisor (consulente politico) di Oxfam Italia.

Papa Francesco ha detto: “Se prevale come fine il profitto, la democrazia tende a diventare una plutocrazia”. Siamo di fronte a questa degenerazione?
“Chi si trova al vertice della piramide distributiva dispone indubbiamente di un considerevole potere di influenza. Può con maggiore facilità condizionare le scelte dei decisori politici, perpetuando interessi di parte, spesso a discapito degli interessi della collettività. Non è purtroppo un’affermazione teorica: il condizionamento politico concorre oggi, insieme ad altri fattori, al mantenimento dei privilegi e all’acuirsi delle disuguaglianze economiche in molti Paesi”.

Ma la creazione di ricchezze economiche non rappresenta anche un beneficio per tutti?
“Tra le giustificazioni economiche mainstream della disuguaglianza vi è l’idea che la prospettiva di accumulare ricchezza incentivi l’innovazione e gli investimenti, incoraggiando gli sforzi individuali e l’assunzione di rischio, favorendo la crescita economica di cui alla fine beneficiano tutti. Tuttavia, sono tante le evidenze a riprova del fatto che gli attuali livelli di disuguaglianza non siano il risultato di sforzi, assunzione di rischio e tangibile attività produttiva quanto di quello che gli economisti chiamano rendita. La rendita economica è realizzabile attraverso una posizione monopolistica sui mercati: i monopoli soffocano gli investimenti e l’innovazione, non necessitano di investimenti quanto i propri concorrenti per mantenere la posizione dominante sul mercato e sono in grado di eliminare o acquisire sul nascere imprese più innovative che vi si affacciano. Il clientelismo e la già citata manipolazione delle politiche pubbliche a proprio vantaggio è un altro fenomeno che permette agli interessi di parte di arricchirsi ulteriormente a discapito del resto della società: una forma di rendita di posizione. Per quanto riguarda la ricchezza, un peso considerevole lo ha la rendita ereditaria, a valenza meritocratica nulla: attualmente circa un terzo dell’estrema ricchezza risulta frutto di eredità e nei prossimi 20 anni 500 tra le persone più ricche del pianeta trasferiranno ai propri eredi oltre 2400 miliardi di dollari, una somma superiore al Pil dell’India, un Paese con 1,3 miliardi di abitanti. Non nascondiamoci astrattamente dietro al merito: da solo non giustifica affatto le distanze economiche fra le persone. Per spiegare le attuali disuguaglianze non ci si può invece esimere dall’esaminare a fondo i meccanismi di accumulazione della ricchezza e formazione dei redditi, discuterne pubblicamente e valutarne l’accettabilità sotto il profilo di eticità ed efficienza”.

Quanto la globalizzazione determina quelli che lei definisce “meccanismi di accumulazione di ricchezze”?
“La globalizzazione ha prodotto molti benefici e opportunità, ma ha al contempo determinato l’aumento dei divari economici in molti Paesi. 7 cittadini su 10 vivono in Paesi in cui la disuguaglianza è aumentata negli ultimi 30-35 anni. La libera circolazione dei capitali ha contribuito a erodere il potere contrattuale dei lavoratori, innescando una forsennata corsa globale al ribasso sui salari, diritti e tutela del lavoro. A pagare un prezzo carissimo sono ad esempio i milioni di ‘invisibili’ che lavorano nelle code delle filiere globali di produzione. Occupati in lavori precari e pericolosi, con tutele minime e retribuzioni che non permettono di condurre un’esistenza dignitosa. Un esercito (con tante riserve disponibili) che non beneficia in maniera equa degli utili che contribuisce a produrre. Utili che vengono investiti in misura sempre più limitata nell’impresa, trasformandosi piuttosto in lauti dividendi per gli azionisti e finendo reinvestiti sui mercati finanziari, spesso per il riacquisto di azioni proprie (buyback) con conseguente apprezzamento del titolo e dei patrimoni finanziari dei proprietari”.

C’è anche un problema fiscale dietro le diseguaglianze?
“Politiche fiscali ben disegnate contribuiscono alla riduzione delle disuguaglianze generate sui mercati. Negli ultimi 40 anni tuttavia il grado di progressività dei sistemi fiscali nazionali si è estremamente ridotto. Nei Paesi ricchi, ad esempio, dal 1970 al 2013, l’aliquota più alta sui redditi delle persone fisiche è calata dal 62 al 30 per cento. Lo stesso trend decrescente ha riguardato anche le aliquote delle imposte sui redditi d’impresa: si stima che dal 2000 al 2016 l’aliquota effettiva versata da un campione di 90 grandi corporation sia scesa dal 34 al 24 per cento. Chi potrebbe contribuire di più gode oggi di condizioni tra le più favorevoli negli ultimi decenni. La corsa al ribasso sulla tassazione d’impresa si è ulteriormente acuita: favorisce un’aggressiva pianificazione fiscale d’impresa e pratiche elusive dai costi elevatissimi per i bilanci pubblici”.

In che modo?
“Ai fini fiscali le società di un gruppo multinazionale sono considerate oggi come “entità separate”: tramite prestiti infra-gruppo o praticando prezzi inflazionati per transazioni fra società sussidiarie della stessa multinazionale, i colossi riescono a trasferire gli utili realizzati in Paesi a medio-alta fiscalità e attribuirli a sussidiarie registrate in Paesi dal fisco amico, riducendo enormemente i propri oneri fiscali globali. Così facendo le grandi corporation, contravvengono, spesso del tutto lecitamente, al principio che gli utili debbano essere registrati e tassati nei Paesi in cui conducono le loro attività e creano valore. Un fenomeno – quello dell’erosione delle basi imponibili e del trasferimento degli utili d’impresa – che costa agli erari di tutto il mondo fino a 240 miliardi di dollari all’anno”.

Cosa c’è da attendersi dal Forum di Davos?
“Il Forum non è un consesso decisionale. Le decisioni in grado di ridurre i divari economici competono ai governi. Ed è dai governi che dobbiamo pretendere misure adeguate ed efficaci di contrasto alla disuguaglianza. Singolarmente e cooperando. Sul fronte della cooperazione fiscale val la pena menzionare i tentativi in corso nell’Ue di introduzione di misure più stringenti anti-abuso, di armonizzazione della tassazione dei redditi d’impresa e misure comuni di tassazione dell’economia digitale. Dossier di peso su cui i negoziati sono però in salita: in materia fiscale nell’Unione si decide all’unanimità e ci sono tante, tutt’altro che inaspettate, riluttanze a fare significativi passi in avanti da parte dei Paesi come Irlanda, Paesi Bassi o Lussemburgo, tra i più aggressivi 'paradisi fiscali societari' secondo la speciale classifica di Oxfam”.

Esistono segnali incoraggianti?
“C’è consapevolezza che la disuguaglianza generi forte inquietudine civica, costituisca un problema per la sostenibilità della crescita economica, la mobilità e la coesione sociale, mini la fiducia nelle istituzioni. La consapevolezza si deve tuttavia trasformare in misure politiche efficaci. La disuguaglianza d’altronde non è ineluttabile, ma è il frutto di precise scelte politiche. Contrastarla non è più rimandabile ed è altresì questione di volontà politica”!

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