Il dibattito sul Tav Torino-Lione ha riportato alla ribalta la questione delle grandi opere e del ritardo infrastrutturale che l’Italia mostra verso buona parte dei partner europei.
Tralasciando la valutazione dell'infrastruttura che, oggi, polarizza l’opinione pubblica in favorevoli e contrari a prescindere, varrebbe la pena concentrarsi su un ragionamento più ampio riguardante le cosiddette “grandi opere” e la loro opportunità.
Non si tratta, infatti, solo di gasdotti, come il Tap, o di reti ferroviarie, come il sopracitato Tav, e neppure di ponti sopra gli stretti o autostrade qua e là, il discorso è molto più ampio e si lega sia allo sviluppo di un territorio sia all’impatto che queste possano avere a livello di sistema.
Già qualcuno inizierà a pensare alle politiche anticicliche ipotizzate da Keynes che vedevano proprio negli investimenti in infrastrutture il punto focale dell’azione di governo nei periodi di stagnazione o di recessione ma la Teoria Generale qui non c’entra.
Le infrastrutture, come il costo e l’accesso all’energia, sono alla base dello sviluppo e del benessere di un territorio; nel passato, ad esempio, i passi alpini furono una fonte di ricchezza non indifferente per gli abitanti delle valli così come l’abbondanza di corsi d’acqua che potevano offrire energia ai mulini e ad altri tipi di aziende di trasformazione. Oggi come allora trasporti ed energia, comparti a cui si sono uniti le telecomunicazioni, rappresentano la base imprescindibile per spingere la crescita economica e il benessere.
Anche le imprese – che fino a qualche anno fa delocalizzavano le produzioni seguendo il costo del lavoro più contenuto e la tassazione più favorevole – oggi scelgono le piazze dove stanziare i propri stabilimenti e le proprie sedi sulla base di un computo costi conto benefici ben più ampio e il sistema infrastrutturale rappresenta un tassello importantissimo in questa analisi.
Non basta, infatti, pagare poco un collaboratore o negoziare, tramite il tax ruling – un’imposizione fiscale di favore – se questo non fosse accompagnato da un costo dell’energia competitivo, una rete logistica efficiente o dall’accesso agevole alla banda larga per le connessioni informatiche.
Poste queste ipotesi possiamo cominciare a sviluppare la tesi. C’è chi dice che le “grandi opere” siano inutili. È un punto di vista, miope, ma che ha un fondamento. A tutti gli effetti non c’è opera più inutile di quella incompiuta o di quella che impieghi decenni ad essere realizzata. I grandi oppositori hanno in mente le “cattedrali nel deserto”, quelle opere messe in atto negli anni passati e mai portate a termine, come certi ospedali divenuti celebri con i servizi di Striscia la Notizia o de Le Iene, oppure certe strade, magari terminate solo in parte e costate centinaia di milioni di euro e percorribili solo per pochi km. Da questo punto di vista opporsi sarebbe più che giustificato, anche in relazione alla situazione di arretratezza che caratterizza il trasporto locale o il degrado di diversi tratti di strade urbane che avrebbero potuto essere ammodernati con quei capitali, effettivamente, buttati via. Il fatto è che, come si diceva poco fa, la visione sia parziale e assai miope.
Questo anche alla luce del fatto che un nuovo gasdotto, ad esempio, permette di differenziare gli approvvigionamenti di gas naturale e di spingere verso il basso il costo all’utente finale per effetto della concorrenza fra i fornitori, oppure che una linea ferroviaria veloce ed efficiente permette di decongestionare il traffico sulle strade, soprattutto da parte dei mezzi pesanti, riducendo così l’usura dei manti stradali (e i relativi costi di manutenzione), i tempi di percorrenza e l’inquinamento prodotto dagli autoveicoli.
“Grandi opere”, però, non è un termine che vada a toccare solo questi capitoli; nell’agenda trovano spazio anche l’ammodernamento della rete idrica, per rendere l’approvvigionamento dell’acqua più efficiente ed economico, e le reti di telecomunicazioni che con l’implementazione del modello di smart working permetterebbero, in prospettiva, di rendere meno necessari gli spostamenti per lavoro e creare hub decentrati per molte aziende, andando a favorire una certa vicinanza a casa da parte dei lavoratori con il conseguente miglioramento del bilanciamento del tempo di lavoro con quello libero e un aumento della produttività.
In definitiva l’investimento infrastrutturale è una via per il futuro e per lo sviluppo sostenibile di un qualsiasi sistema economico; opporvisi, per mero preconcetto, significa andare a mettere un punto di domanda anche sulla stabilità di tutto l’impianto, fosse anche solo perché queste opere sono circondate da un indotto non trascurabile. L’impatto, poi, non va ad “arricchire i soliti noti” ma a redistribuire i fondi impiegati in vari settori produttivi contribuendo alla loro crescita che, nel medio periodo, permetterebbe di rifinanziare nuovi cantieri per altre opere.
Esiste, però, un altro filone di oppositori che si distacca dagli amuli di Latouche e della decrescita ed è quello di chi vorrebbe un intervento minimo da parte dello Stato, giudicando le “grandi opere” come uno spreco di denaro pubblico che sarebbe stato meglio decurtare da prelievo fiscale; bene, finora non si è mai parlato di investimento diretto dello Stato, benché questo sia la modalità più comune di finanziamento dei progetti infrastrutturali, perché esiste anche la possibilità di project financing, quindi di una partecipazione, anche totalitaria, di fondi privati a sostegno dell’apertura dei cantieri.
Qualora un’opera sia veramente di utilità generale, infatti, questo potrebbe essere lo strumento principe a cui ricorrere per far partire i progetti: l’accesso ai capitali privati permetterebbe di allentare i vincoli di finanza pubblica e di non aumentare il fabbisogno per la copertura dei costi relativi alla realizzazione delle infrastrutture; ovvio che questo, poi, vada compensato e qui si entra nel complesso discorso riguardante le concessioni di gestione che, se ben gestite, permetterebbero di velocizzare l’ammodernamento della rete infrastrutturale e di realizzare un’azione di politica economica espansiva a costi irrisori per la comunità.
Il discrimine tra le due modalità non è questione di punti di vista sul tipo di “privato è bello” contro “il pubblico garantisce tutti”, ovviamente, ma di un calcolo preventivo dell’utilità generale nell’applicazione di un modello di finanziamento e di gestione o dell’altro, perché è bene ricordare che, utilizzando un’espressione divenuta proverbiale di Robert A. Heinlein, “non esistono pasti gratuiti”; in un modo o nell’altro, il conto verrà sempre saldato da qualcuno e se il saldo non avvenisse tramite una tariffa da parte del concessionario all’utilizzatore questo avverrebbe tramite la fiscalità.