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Far trionfare la vita, non l’eutanasia

È di questi giorni la discussione alla Camera della proposta di legge, di iniziativa popolare, in tema “di rifiuto dei trattamenti sanitari e liceità dell'eutanasia” promossa dall’associazione Luca Coscioni e richiesta al Parlamento dalla Corte Costituzionale chiamata recentemente a pronunciarsi sul caso giudiziario, relativo alla richiesta di suicidio assistito del Dj Fabo, nei confronti di Marco Cappato sotto processo anche a Massa per analogo capo d’imputazione. Sostanzialmente la legge si compendia nei primi tre articoli dove sono previste all’art. 1 la legittimazione dell’eutanasia (al momento da omissione) e la obbligatorietà da parte del personale medico e sanitario a rispettare la richiesta di dolce morte, all’art. 2 le conseguenze civili risarcitorie e penali nei confronti degli operatori sanitari in caso di inadempienza e all’art. 3 la non applicabilità degli art. 575 (omicidio), 579 (omicidio del consenziente), 580 (istigazione o aiuto al suicidio), 593 (omissione di soccorso).

È del tutto evidente che l’eventuale applicazione della legge aprirà una molteplicità di problematiche di tipo etico, giuridico e sociale. Il medico infatti non sarà più chiamato come sua specificità ad essere datore di vita ma al contrario sarà un mero esecutore di morte. Il paradosso di questa legge poi consiste nel fatto che chi sarà fedele alla propria mission professionale, che è quella di dare salute ed alleviare la sofferenza, sarà punito con sanzioni civili e penali e, al contrario, chi l’applicherà tradendo così l’Ars Ippocratica ne sarà esente. La problematica dell’eutanasia presente fin dai tempi d’Ippocrate denuncia una regressione etica che nel corso dei tempi è passata dal rispetto assoluto della vita, dal suo inizio “non fornirò mai ad una donna un mezzo per procurare un aborto” fino al suo termine naturale “non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale”, ad una cultura di morte che poco spazio lascerà, nell’applicazione della legge, all’handicappato grave, all’anziano non autosufficiente, al malato terminale certamente depresso, angosciato, obnubilato e troppo spesso lasciato solo nella sua vita di sofferenza.

Prima di varare un ordinamento giuridico che mina la base dell’art. 32 della nostra Costituzione (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo….”), credo sarebbe opportuno porsi alcuni interrogativi che riguardano la persona, il medico, la società. Chi si preoccupa minimamente ad esempio di quali siano le ragioni per cui un paziente possa formulare una richiesta eutanasica? Senso dell’abbandono, peso economico? Cosa fa lo Stato in concreto per chi al contrario vuole vivere e non ce la fa in termini finanziari ed assistenziali? Sostenere una cultura di morte per legge significherebbe per l’odierna società affrontare il problema della sofferenza nella maniera più semplice e meno impegnativa possibile, banalizzando l’esistenza dell’uomo al quale, in nome di una amorevole pietas, viene donata la dolce morte equiparandone in tal modo la vita biologica a quella di un qualsiasi altro essere vivente cui spesso per interromperne il patimento viene procurata la morte; ben diverso, al contrario, è trovare le risorse affinché tutto questo non si verifichi.

Che un paziente adeguatamente informato possa rifiutare l’inizio di un percorso diagnostico-terapeutico è un atto legittimo e che va certamente rispettato così come previsto, salvo alcuni distinguo, anche dalla recente legge sulle Dat. Cosa diversa quando viene messa in discussione la libertà ed autonomia professionale del medico, negandone di fatto l’obiezione di coscienza così come prevista dall’art. 4 del codice deontologico: “L’esercizio professionale del medico è fondato sui principi di libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità”. È ciò che potrebbe delinearsi ogni qualvolta venga richiesto il distacco di un paziente da un ventilatore meccanico in contrasto con l’art. 17 del codice deontologico: “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”: entrambe situazioni attualmente perseguibili dagli art. 579 e 580 del codice penale.

Ed in questa attuale società dove l’informazione attraverso radio e tv incita, a costo zero, i cittadini a denunciare i medici per eventuali danni subiti ritenuti tali, in un momento in cui quasi dieci milioni di persone hanno rinunciato alle cure per indigenza, dove la spettanza di vita grazie alla farmaco-tecnologia si è allungata in maniera fino a qualche decennio fa inimmaginabile, come si pone lo Stato? La risposta dovrebbe esser quella di riallocare le risorse in maniera oculata, di salvaguardare la salute sempre e comunque, di non creare le condizioni per le quali il paziente e i familiari si vedano costretti per disperazione a fare una richiesta di eutanasia. La soluzione infatti dovrebbe essere sempre quella di porsi a baluardo della vita e della dignità della persona, creando le condizioni perché le fragilità siano risolte con il trionfo della vita e non con la supremazia della morte. Staccare la spina è sicuramente l’atto più semplice. Il creare le condizioni del non farlo è certamente più difficile ma più degno e meritevole.

Stefano Ojetti – vicepresidente nazionale Associazione Medici Cattolici Italiani (Amci)

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