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Cammarelle: “Io, il pugilato e i giovani d'oggi”

Le gambe di Zhilei Zhang – un gigante cinese di oltre due metri – ancora si piegano al pensiero di quel gancio sinistro che lo mise al tappeto all'ultimo minuto della finalissima per l'oro olimpico a Pechino, nel 2008. Roberto Cammarelle festeggiò quel traguardo, storico per il nostro pugilato, con incredibile sobrietà: prima l'abbraccio con l'avversario, poi quello con il ct Francesco Damiani. Sul suo volto un misto di soddisfazione e straordinaria normalità – come se vincere i Giochi fosse cosa di tutti i giorni -, tradite in seguito dall'emozione al momento dell'esecuzione degl'inni, sul petto il disco forgiato del metallo più prezioso.

Quattro anni dopo le emozioni sarebbero state diverse: un arbitraggio molto casalingo, a Londra, assegna la vittoria ai punti al britannico Anthony Joshua. Unica consolazione: aver affrontato e messo in difficoltà il futuro campione del mondo dei pesi massimi Ibf, Wba, Wbo, Ibo, capace, nel 2017, di mettere ko la leggenda Vladimir Klitschko al termine di un incontro epico. Cammarelle è una bacheca vivente, non solo per la stazza: oltre all'oro e all'argento olimpico, può vantare, fra gli altri, il bronzo ad Atene 2004, due mondiali dilettanti, tre argenti agli europei, quattro ori nei campionati Eu e tre nei Giochi del Mediterraneo. Tutti nella categoria dei supermassimi.

Durante la sua carriera, iniziata nella sua Cinisello Balsamo (Mi), ha portato in alto non solo i colori azzurri ma anche quelli delle Fiamme Oro, squadra sportiva della Polizia di Stato. Appesi i guantoni al chiodo è entrato in federazione con il ruolo di team manager di tutte le nazionali italiane, alla ricerca di nuovi Cammarelle, capaci di conquistare gli dei dell'Olimpo. In Terris lo ha intervistato.  

Come nasce la sua passione per il pugilato?
“Per caso. A 11 anni sono entrato per la prima volta in palestra insieme a mio fratello per fare un po' di attività fisica e perdere peso. Nella “Rocky Marciano” di Cinisello Balsamo, dove ho cominciato, c'era il maestro Biagio Pierri, amico di un amico di famiglia. Per cui mi consigliarono di andare lì”.

E' stato amore a prima vista?
“Non proprio, anche se ci ho messo poco a innamorarmi. Tempo qualche mese e ho iniziato a fare pratica. Mi sentivo un campione, quello era il mio mondo. A 14 anni ho cominciato a combattere e a vincere e non ho più smesso, anche se non sono mancate le sconfitte, comprese quelle con qualche recriminazione…”. 

Quali obiettivi si era posto?
“Quelli di vincere e di essere un numero uno, di fare la storia del pugilato. Spero di esserci riuscito…”

Lei è figlio di meridionali migrati al nord ed è cresciuto in un contesto non facile come quello dell'hinterland milanese. Nella boxe esiste una componente di riscatto sociale?
“Non nel mio caso. Conducevo una vita tranquilla ed ero perfettamente integrato sia a Cinisello che nella periferia milanese. Il sangue meridionale mi ha però aiutato a gestire la fatica. La voglia di mettersi in gioco, il senso sacrificio li trovi più facilmente nei ragazzi del Sud. A Milano la pratica della boxe è vissuta in modo diverso, emergere è più difficile…”

Perché?
“Si trova lavoro più facilmente. Questo sport viene vissuto più come un divertimento, un passatempo. Basti pensare che io e Giacobbe Fragomeni, i massimi esponenti della boxe cittadina, siamo entrambi di origini meridionali. Per fare pugilato in modo serio, evidentemente, non puoi essere un milanese doc…(ride ndr)”

Meglio un oro olimpico o un titolo mondiale?
“Un oro olimpico. Io ho iniziato con l'ambizione di diventare campione del mondo dei professionisti. Poi sono entrato in nazionale, nel mondo dell'olimpiade e ho capito che vincere un oro ti fa davvero entrare nella storia di questo sport. Questo nulla toglie al titolo mondiale. I grandi campioni sono riusciti a raggiungere entrambi gli obiettivi. Io ho partecipato a 3 edizioni dei Giochi, portando a casa altrettante medaglie. Non ho rimpianti”.

Londra 2012: un arbitraggio discutibile in finale le costa il secondo oro dopo quello di Pechino. Avesse battuto Joshua avrebbe sfidato lei Klitschko?
“Non credo. Ero troppo avanti con gli anni per passare tra i professionisti. L'intenzione, poi, era quella di smettere, anche se sono andato avanti ancora un altro paio d'anni. Nel 2013 ho vinto il bronzo al mondiale, anche in quel caso con una preferenza per il mio avversario in semifinale, nonostante l'incontro fosse finito pari. E lì ho capito una cosa…”

Quale?
“Che le giurie internazionali non mi apprezzavano più. Era arrivato il momento di fermarsi. Aggiungo una cosa…”

Dica…
“Per diventare professionista, ai livelli di Joshua, sarei dovuto emigrare all'estero. In Italia non c'erano le condizioni, il sistema professionistico da noi non funziona un granché bene, non ti offre le opportunità tecniche, agonistiche ed economiche che sono la base di questo mondo”. 

Il fatto di aver perso con un futuro numero uno ha ridimensionato quella sconfitta?
“Certo. Più Joshua vince, più il mio argento diventa prezioso. Sono contento di aver sfidato un grande campione che oggi dà lustro al pugilato. Quando ho inziato tutti volevano diventare come Mike Tyson, oggi Joshua è un punto di riferimento per i giovani ed è una cosa che fa bene a questo sport”. 

Il suo match con Klitschko del 2017, poi, è stato uno dei più belli e drammatici dell'ultimo decennio…
“Gli incontri sono storie che si raccontano sul ring. E' lì che si manifesta la voglia di vincere di una persona. E quel particolare match è stata una storia che da tanto tempo non si vedeva. Davvero bello: da film”. 

In “Rocky 4” Apollo Creed, che ha da anni appeso i guantoni al chiodo, dice che l'istinto del combattente non si accende e si spegne come una radio. Per lei il ritiro è stato duro?
“Non è stato facile ma non siamo eterni ed è importante capire quando è arrivato il momento di ritirarsi. Io volevo farlo lasciando una bel ricordo di me. Alcuni pugili non hanno sentito 'l'ultima campana' e hanno voluto proseguire, danneggiando la propria immagine. Penso a Mohammed Alì, un combattente straordinario, che non ha lasciato quando doveva e, andando avanti, qualche botta in più l'ha presa”. 

L'Italia che riempiva San Siro per assistere al “derby” tra Mazzinghi e Benvenuti, diciamolo, non esiste più.. E' venuta meno la passione per la boxe o è la qualità degli interpreti a essere calata?
“Entrambe le cose. I tecnici sono sicuramente meno preparati e questo si riflette sui loro allievi. I giovani d'oggi, poi, vogliono debuttare prima, avere tutto subito e quando vincono si sentono arrivati. In nazionale cerchiamo di fargli capire che sono solo all'inizio ma non è facile. Se vuoi fare il salto di qualità devi avere l'umiltà e l'intelligenza di sapere che devi continuare a lavorare giorno per giorno. Se ti accontenti, sentendoti già il migliore in circolazione, finisci col fermarti”.

I giovani, insomma, stanno diventando difficili da gestire…
“Sono meno disponibili alla fatica. Sarà forse la cultura dei talent show che li porta a pensare di poter avere subito notorietà, senza fare la gavetta. Vincono 2/3 match e già credono di poter partecipare a un'Olimpiade. Non è così: quello verso i Giochi è un percorso di almeno 4/6 anni. E' raro trovare qualcuno già pronto”. 

Il boom, soprattutto mediatico, del Mixed martial arts (Mma) vi sta portando via talenti?
“Sì. Quella dell'Mma è la moda del momento, così come lo era la kick boxing a metà anni 90. Questa pratica sportiva comprende alcune cose del pugilato, per cui molte persone iniziano con noi e poi migrano. Io, però, preferisco essere di nicchia e alzare il livello della qualità”. 

Lei, sia come atleta che come esponente delle forze dell'ordine, è sempre stato impegnato nella lotta al bullismo e al cyberbullismo. Cosa può fare la boxe in questo campo?
“Può svolgere un ruolo molto importante. Mi piacerebbe farlo capire a docenti e genitori e far inserire la prepugilistica nell'ora di educazione fisica a scuola. Chiariamoci: non vogliamo insegnare a difendersi facendo a botte ma il rispetto delle regole, di se stesso e degli altri, che sono tipici di questa disciplina. C'è poi una componente psicologica: la consapevolezza della propria forza porta a prediligere le parole per rispondere a un'offesa. Il bullo, non dimentichiamolo, è solo un insicuro che attacca un altro insicuro per sentirsi accettato a livello sociale. Per cui, più persone sicure creiamo e meno atti di bullismo avremo”. 

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