Bene, mettiamo da parte per un momento l’inevitabile rissa politica fra Lega e Pd sulla gestione dell’ingresso degli arabi nel Cda della Scala. Del resto era inevitabile lo sfruttamento della vicenda da parte degli uomini di Salvini, sempre più determinati a non fare sconti al sindaco di Milano, Beppe Sala, il quale si è complicato la vita da solo, ammettiamolo. Trattasi, comunque, di un gustoso antipasto della campagna elettorale che verrà. Ci sarà da divertirsi, statene certi. Ma il tema sollevato da questa commedia degli errori, dove soprani e tenori hanno steccato in egual misura, riguarda meno la politica, che ha le sue responsabilità ma al momento stanno da un'altra parte, e molto il sistema paese. In particolare quel bene comune chiamato made in italy. Del quale sembriamo aver perso la cognizione. Anzi, è come se fossimo entrati in una sorta di macchina infernale dentro alla quale tutti vedono tutto e solo noi, italiani, siamo ciechi e sordi. In pratica siamo arrivati al punto da non saper gestire l’arrivo in Italia dei capitali esteri, da qualunque parte essi arrivino. Come se fossimo ancora un Paese diviso in repubbliche e non una repubblica fondata sul lavoro. E non la paura dell’invasore, del colonizzatore, a creare questo corto circuito che rischia di mandare in fumo tutto il sistema, ma la strutturale incapacità nel saper gestire il nostro patrimonio. Il caso della scala di Milano è da manuale.
Gli arabi, come i cinesi e i russi, sono innamorati del nostro Paese. Lo vogliono accarezzare, coccolare, mirando a possederne dei frammenti, dei tasselli. In parte le multinazionali si sono già prese molti marchi storici, ma il caso il fattore è puramente commerciale. Sono solo affari, se vendi c’è chi compra. Qui la merce in palio è la nostra cultura, la nostra storia, il nostro vero petrolio. Di quello hanno voglia oggi arabi, cinesi e russi. E per averlo non badano a spese. Siamo noi che non siamo preparati ad affrontare questa curva della storia. Il teatro alla Scala è un fatto per pochi, pagato da tutti. Alle prime non c’è il suffragio universale, c’è solo una parte della società. Nonostante il tentativo di rendere il teatro uno spettacolo per tutti, va dato atto al sindaco Sala di lavorare in questa direzione, la stagione della Scala non è una stagione per tutti. Logico dunque cercare nuovi capitali, logico cercare fondi laddove ci sono portafogli pronti ad aprirsi. Quel che serve sono regole certe, chiare, non recite a soggetto, Il cui effetto è quello di indebolire il Paese, rendono sempre più aggressivi gli aggressori, ammesso che siano tali. Certo nel caso in questione il tema di fondo sono i diritti umani negati dai governanti del Paese che vuole entrare alla Scala. Certi sconti non sono accettabili. Ma non è nemmeno accettabile gioco dei rimpalli, dello scaricabarile sulle responsabilità mandato in scena dalla politica. Da chi governa, da chi amministra ci aspetteremmo passione e ragione per il nostro patrimonio culturale. Non risse da pollaio, perché poi piace a tutti andare alla prima. Della Scala appunto.