L’hanno chiamata Hemp Fest, la prima fiera a livello europeo dedicata alla pianta della Cannabis che si è svolta a Milano dal 3 al 5 Maggio, con 150 espositori tra gazebo, dibattiti e concerti. Al di là dell’uso disinvolto del gergo anglofono in terra italica, che rappresenta una conferma ulteriore della colonizzazione culturale subita, alla vigilia della manifestazione ha fatto molto discutere il suo slogan promozionale “Io non sono una droga”, a corollario del logo raffigurante una foglia di cannabis sovrapposta alla stilizzazione del Duomo della città meneghina. Niente di strano all’apparenza, se non fosse che quella foglia nell’immaginario collettivo sia indissolubilmente legata all’uso ludico e spesso pericoloso della sua versione chimica alternativa che rallegra le notti di milioni di giovani, ingrassando le mafie di tutto il mondo e – forse, in un prossimo futuro – gli azionisti delle multinazionali del tabacco.
La stessa attenzione mediatica riconosciuta alla Cannabis industriale – quella che “non sballa”, per intenderci – trova legittimazione nell’ambigua differenziazione con la parente allucinogena più prossima. L’utilizzo di simboli e significati si presta a infinite manipolazioni di senso che obbligano a tenere alta la guardia, perché infidi messaggi non vengano banalizzati sdoganandone l’accezione sottostante per essere veicolati alla generalità in un processo comunicativo unilaterale e così tale dispotico. Nel corso dei secoli la Canapa si è dimostrata una pianta molto versatile dai molteplici utilizzi, dall’alimentazione fino alle recenti applicazioni ingegneristiche in campo energetico o agricolo. Questo, tuttavia, non la rende unica nello sconfinato mondo della flora che impreziosisce e consente la sopravvivenza della nostra madre terra e dei suoi abitanti. Migliaia di specie di arbusti, alberi, fiori e infiorescenze, sono impiegati dall’alba dell’umanità per soddisfare le esigenze di adattamento e l’inclinazione alla prosperità e al progresso dell’uomo e dei suoi simili. Eppure, raramente si è assistito ad un interesse pressoché feticistico per un solo vegetale, nonostante le innegabili qualità. Piuttosto, sembra un’attenzione strumentale alla subdola e graduale legittimazione della parente povera (a seconda dei punti di vista) della canapa, conosciuta comunemente come Marijuana che, a parte gli usi realmente terapeutici, è utile solo allo sballo fine a se stesso, né più né meno di altre droghe. Ricorda un po' quello che avvenne circa una ventina di anni fa nel nostro Paese, quando esplose il mercato delle birre. La bionda da bere era considerata la bevanda per antonomasia dei manovali, che accompagnava la pizza con la mortazza durante la pausa pranzo, ovvero elisir esotico per intenditori, rigorosamente uomini, da gustare nell’oscurità dei pub dal sapore anglosassone. Ad un certo punto comparvero sugli scaffali dei surrogati analcolici dalle medesime caratteristiche olfattive e gustative che potessero avvicinare ai sapori proibiti anche i più giovani e il cosiddetto sesso debole. Ben presto la bionda insulsa si rese irreperibile, per lasciare spazio ad una vera e propria invasione di etichette alcoliche, ma soprattutto ad una cultura del bere quotidiano, intra-genere e intra-generazionale, che non conosceva precedenti nella tradizione del passato.