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A capo coperto verso la vittoria

L'hijab è un simbolo religioso, ma ora anche, dal golf al wrestling, un prezioso accessorio sportivo per le donne musulmane. Il velo islamico è composto tecnicamente di due parti: la cuffia che tiene raccolti e fermi i capelli e il velo che viene appoggiato su di essa e può essere legato sotto il mento, avvolto intorno al collo o lasciato ricadere liberamente sul corpo, secondo la definizione della Treccani. All’hijab ha dedicato un approfondito dossier l’Agi, da cui emerge che il velo delle donne islamiche è divento una bandiera dello sport. Lo raccontano all’Agi Noor Ahmed e Nor “Phoenix” Diana, un'americana musulmana, che gioca a golf al campionato del college e una malese che brilla nella lotta professionistica. Noor Ahmed, nata ad Austin, Texas,  vent'anni fa, ha imparato sin da piccola a non temere la sua diversità.

I pregiudizi superati

Dopo le minacce fisiche che ha subito a Sacramento da giovanissima, “dopo gli insulti con ogni parolaccia razzista che si può immaginare”, oggi, al college, all'University of Nebraska-Lincoln, può guardare negli occhi i coetanei e contrastare qualsiasi sguardo, risolino e bisbiglio di scherno e disapprovazione alla sua mise. Nulla può contro la vigliaccheria dei killer da tastiera dei social network, riferisce l’Agi. Ma lei insiste, convinta delle proprie ragioni: “Anche se me ne dicono di tutte, anche se a parole vorrebbero escludermi dallo sport, anche se sostengono che noi musulmani non abbiamo diritto di esistere in America, anche se mi invitano a tornarmene a casa mia, io che sono americana come loro, sono testarda e faccio la mia vita, da studentessa e da golfista. Anzi, trovo proprio in quelle parole il fuoco che mi serve per migliorarmi”. Del resto, in seconda media ha deciso lei di indossare l'hijab, non gliel'hanno imposto i genitori o la sua comunità. “Una donna deve vestirsi con modestia”. A costo di veder sparire il giorno dopo molti dei supposti amici, più impauriti di lei di essere additati come diversi, o come anti-americani, racconta l’Agi. Figurarsi se una persona così forte poteva fermarsi davanti alla sfida dello sport. Figurati se non si accorgeva di una disciplina intimista come il golf. Noor Ahmed l'ha scoperto a 8 anni, sul campo pratica dell'Empire Ranch Golf Club, a Folsom, Sacramento, dov'è cresciuta. Presto ha capito che è il percorso ideale per chi, come lei, chiede un premio al suo impegno. Anche se ha dovuto imparare a coesistere con gli altri, grazie a una allenatrice illuminata, Angie Dixon, che l'ha liberata della timidezza: “Ho imparato a stare tranquilla sul tee di partenza, ho imparato a salutare e a guardare negli occhi i compagni, ho imparato a pronunciare il mio nome ad alta voce. Ho imparato a farmi accettare, col mio hijab“. Non ha ancora imparato ad accettare l'ignoranza: “Ancora oggi, sul green, mi chiedono da dove vengo e mi fanno i complimenti per l'inglese”.

Coraggio e determinazione

La barriera, aggiunge l’Agi, è sempre quel velo, anche per dimostrare continuamente che una donna musulmana può essere competitiva”. Il suo futuro non sarà sul circuito pro. Le basta la fama fra gli Huskers, del campionato NCAA, le basta acquisire tutte le informazioni da trasferire un giorno nello sport universitario. Invece, la piccola-grande 19enne Nor Diana, 155 centimetri d'altezza per 43 chili appena di peso, che combatte sul ring corazzata dal suo hijab nero e arancione, ha strappato il nomignolo di “Phoenix” con l'audacia e la tecnica di una leonessa, rovesciando montagne di muscoli al testosterone. “Anche se sono musulmana e porto l'hijab niente mi può impedire di fare quel che amo”, ha dichiarato impavida già ai primi passi nello sport, nel 2015. Senza paura dei pregiudizi della sua Malesia. Il paese del sud est asiatico di 32 milioni di abitanti, col 60% di musulmani che, col Malaysia Pro Wrestling (MyPW) imita la massima espressione Usa, il World Wrestling Entertainment, sempre fra realtà e finzione. “Quando sono Phoenix, sono una persona completamente diversa, sono piccola di forme, ma posso fare cose che la gente non può immaginare”, racconta la ragazzina terribile. “All'inizio è stata dura. Ho incontrato tanta perplessità proprio perché musulmana, e perché portavo l'hijab. Infatti combattevo con una maschera, per non essere riconosciuta”. “Mask vs Pride Match” è proprio una forma di competizione di wrestling. È popolare soprattutto in Messico, ed è anche il trampolino per la fama e per il passaggio sul ricchissimo palcoscenico statunitense. Ma Nor Diana voleva proprio togliersela la maschera, voleva mostrare a tutti che cosa può fare una donna musulmana armata del suo hijab e della sua tuta rosso fuoco, puntualizza l’Agi.

Effetto social

“Molti volevano sapere se ero “Phoenix” o un altro, ho chiesto qual era stata la reazione quando mi toglievo la maschera e mi hanno detto che avevano visto la gente piangere. In Malesia siamo diversi dal Messico: lì combattere con la maschera ha un valore quasi sacro, ma io dovevo dimostrare chi ero e mostrare il mio coraggio nel fare quel che faccio”. Battere quattro uomini e diventare campionessa di lotta di Malesia è stato un passaggio decisivo. Così come l'ha aiutata il supporto delle altre aspiranti lottatrici musulmane, donne, che le chiedevano informazioni e consigli. E hanno cominciato a seguire il suo esempio. Anche se il wrestling non è il suo lavoro. Per vivere, Nor Diana – anche questo è un nome d'arte – lavora in un negozio di articoli per automobili. Questione di tempo. Su twitter, riporta l’Agi, le arrivano spesso i complimenti della superstar WWE, Adeel Alam, un musulmano americano che combatte col nome di “Ali”. Scarsa fantasia, e molti soldi. Ma vuoi mettere col coraggio di Phoenix che combatte contro gli uomini col suo hijab? Per la prima volta alle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016 si parla di “Hijab Muslim American” perché Ibtihaj Muhammad, nata a Mapplewood nel New Jersey, vince la medaglia di bronzo nella scherma a squadre femminile. E ha il capo velato, come sottolinea Shelina Janmohamed, scrittrice britannica e musulmana influente nel suo saggio Muslim Sportswear. Nei Paesi dove i musulmani sono in minoranza, tipo Europa e Stati Uniti, è il governo a stabilire entro quali limiti l’etica non confligga con l’estetica, dando la percezione – come dichiara all’inviata del Corriere della sera, Giusi Ferré,  Deena Aljuhani Abdulaziz – che “i modi più evidenti di coprire il corpo possono soddisfare gruppi politici e sociali che sostengono le campagne a favore del diritto delle donne alla libertà di espressione religiosa”. È stato questo sguardo attento e curioso sulla realtà a guidare le ideatrici della mostra, che raccontano la bellezza multiforme della moda islamica, dalla sontuosità dell’Indonesia (con i suoi 261 milioni di abitanti il più grande Paese islamico del mondo) ai codici di abbigliamento messi a punto da musulmani che creano negli Usa e nel Regno Unito, come Céline Semaan Vernon di Slow Factory e Saiqa Majeed di Saiqa London. A questo si aggiunge la narrazione personale messa ultimamente in risalto da riviste di life style come Âlâ, la prima rivista turca sullo stile di vita musulmano; Alef , fondata in Kuwait, di breve durata ma molto significativa, e il recente Vogue Arabia, attentissimo alle dinastie reali. Anche se, aggiunge Ferré, nella sezione della mostra dedicata alla fotografia, non mancano le immagini originali di Hengameh Golestan sulle manifestazioni delle donne in Iran nel 1979, contro l’imposizione del velo imposto con l’insediamento della Repubblica Islamica dell’ayatollah Khomeini.

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