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Hevrin Khalaf e le donne che combattono per i propri diritti in Siria

Quando i guerriglieri curdi si sono avvicinati alla Toyota ferma lungo la strada, era chiaro che quel veicolo crivellato di colpi di mitragliatrice fosse diventando una tomba. Non per lei, che giaceva inerme sul ciglio sassoso: Hevrin Khalaf era lì, senza vita, dopo essere stata probabilmente presa a sassate e violentata in un'area deserta, nel nord-est della Siria. Eppure, nonostante il sacrilegio di uomini senza nome, il suo di nome resterà impresso nel cuore di tanti siriani. Ieri, nel villaggio di Derek, al confine con l'Iraq, sono venuti a renderle omaggio tutti i massimi esponenti politici e militari curdi: la conoscevano tutti in quell'area martoriata del Paese. Il suo nome era foriero di speranza anche a Kobane, città-simbolo della resistenza curda al sedicente stato islamico: lì, dove ciò che resta della città è solo un cumulo di pietre, il nome di Khalaf serviva a dare voce al silenzio spettrale della guerra. Viene alla mente la risposta che Max Weber diede agli studenti smarriti davanti alle macerie europee dopo la Prima guerra mondiale: “Ci metteremo al nostro lavoro ed adempiremo al compito quotidiano nella nostra qualità di uomini“.

In prima linea per i diritti umani

Trentacinquenne, Khalaf aveva nel suo dna la tenacia del popolo curdo. Non s'era mai fatta intimorire dalle minacce, lei giovane segretaria del Partito Siriano del Futuro, in prima linea per i diritti delle donne e l'aiuto ai più deboli. E così in trincea ha perso la vita, lasciando su di sé l'immagine più autentica: quella della battagliera, tutta tesa a sdoganare i pregiudizi sul ruolo femminile nell'enclave siriana. Per questo, i fondamentalisti islamici vedevano in lei una minaccia. Dalla Turchia negano che le milizie mercenarie siano responsabili della sua uccisione, ma i curdi accusano li accusano senza dubbi. Non ci sono nomi che confermerebbero, però è noto che quel tratto di strada sia costantemente monitorato dai jihadisti di Ahrar al-Sharqiya, un gruppo di ribelli siriani armati originario del Governatorato di Deir ez-Zor e affiliato ai fondamentalisti di al Qaeda, che sarebbero stati assoldati dalla Turchia per far guerra ai curdi siriani.

Nomi nel silenzio

Come Khalaf, in Siria ci sono donne che si battono contro chi vuole dire loro che il tempo degli eroi è finito. Spesso sono nomi che cadono nel silenzio. Ci sono abituate loro, perché la lotta che ingaggiano non è solo una questione armata. Oltre a combattere, preparano il cibo, proteggono i bambini, restituiscono la dignità all'uomo come solo una madre sa fare. Non hanno età, possono essere giovani o anziane e sono pronte a soccombere per arrestare l'avanzata dell'Isis. L'Osservatorio dei diritti umani non ha smesso di postare su Twitter le loro foto: spesso sorridenti, nelle difficoltà hanno continuato ad infondere speranza, anche quando nel nord-est del Paese l'onda nera del califfato avanzava e si ritraeva, tra Raqqa e Kobane. Non hanno mai negato il timore di essere prese di mira proprio da quei fondamentalisti che volevano metterle a tacere per sempre, non con la morte veloce, ma con la violenza e la tortura. Hanno, però, scelto di parlare, proprio come Khalaf, e il loro grido resterà un vento di libertà.

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