Spesso mi soffermo ad ascoltare i leader delle formazioni politiche di ogni colore ed orientamento, volendo capire dal linguaggio usato, quanto pesa il lavoro fatto in un lavoro di squadra, come dovrebbe essere in tutte quelle associazioni che, al pari di quelle politiche, vivono di impegno collettivo. Dal linguaggio si può capire quanto intensa è la collaborazione tra persone accomunate dal medesimo progetto, in un ambiente costituito da persone con la stessa sensibilità, la stessa esperienza, la stessa passione.
Ma a ben stare attenti, da quello che si comunica, traspare una certa frattura con il passato, una involuzione (ne sono certo) del modo di vivere l'impegno politico come occasione massima di collaborazione con altri. La constatazione che, nella comunicazione, costoro non usino mai il “noi”, ma l'”io”, spiega da sé il vissuto anomalo di gran parte delle associazioni politiche in una epoca così contraddittoria come quella che viviamo, dove l'esperienza politica sta subendo un grave sfilacciamento. Insomma quell’io, ben racconta la condizione nuova e violenta della personalizzazione che investe l'esperienza attuale, che mal si concilia con la natura democratica necessaria che un uomo politico deve fare propria, come così insistentemente precisa e pretende la nostra Carta Costituzionale.
Dal mio punto di vista, tutto questo sottolinea il molto che non va: confessa un deficit di buon funzionamento degli organismi associativi e dello svilimento della vita democratica. Se non fosse così, verrebbe spontaneo parlare di un noi, come portato di un lavoro di più persone, accomunate dalla stessa esperienza perché vissuta intensamente insieme. Qualcuno dirà che queste considerazioni sono forzate! Ma in campagna si dice che dai piccoli segni si rivelano le grandi cose che nascondono.