Non bastano le maglie strette dei controlli, nemmeno le lacrime del piccolo Mario, ripreso ieri dalle telecamere del San Paolo e immagine di un calcio appassionato, che non si vergogna delle emozioni. Così, lo sport che accudisce l'italiano dall'album di figurine all'abbonamento annuale, troppo spesso diventa una zona franca, dove sparuti gruppi violenti hanno il potere di trascinare masse di uomini a farsi guerra tra loro. L'ultimo episodio, due giorni fa, ha mietuto una vittima: un tifoso della Vultur Rionero investito fatalmente da un'auto sulla quale viaggiavano alcuni tifosi del Melfi. L'ultimo di una lunga lista di morti che non conosce livello, dalla Serie A all'Eccellenza. Sono passati più di 40 anni dal tragico incidente all'Olimpico in cui Vincenzo Paparelli perse la vita perché colpito da un razzo esploso durante il derby Roma-Lazio. Eppure la violenza che continua a reiterarsi in questi anni mostra che il calcio ha poca memoria e puntare alle generazioni future per cambiarne il paradigma è una scommessa alla roulette russa.
Dati discrepanti
A guardare bene i dati forniti dall'Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, si nota una diminuzione dei casi di aggressione. Su 913 incontri di calcio monitorati fino a novembre 2019, è emerso che gli incontri con feriti sono diminuiti da 47 a 20, con una riduzione di oltre il 57%. Tra i feriti il decremento è evidente sia tra le forze dell'ordine (da 48 a 24), che tra gli steward. Anche il numero di denunciati è in drastico calo: da 555 a 316, e sono solo una decina gli arrestati. Dati confortanti, per certi versi. Se, però, vengono paragonati a quelli stilati dall'Osservatorio violenza dell'Associazione Italiana Arbitri, fino a giugno 2019 gli episodi di aggressione agli arbitri sono stati circa 457, incluse le donne, mostrando un fenomeno che non conosce spalti più o meno prestigiosi: sono una dozzina le aggressioni degli Allievi regionali e 16 negli Juniores regionali. I dati dell'Osservatorio nazionale, infatti, non tengono in conto i campionati minori, dove la tifoseria è esacerbata. Basta guardare i video pubblicati su YouTube e sui social per rendersi conto di come la realtà sia diversa nelle tifoserie minori. Fonti vicine a Interris.it, confermano la diminuzione di questi casi nelle serie superiori e un aumento nelle leghe inferiori, dove la rivalità fra tifoserie è più sentita. Un'ulteriore conferma che, in questi casi, il problema sarebbe culturale e andrebbe arginato con un rafforzamento della sicurezza
La soluzione? Ridimensionare i finanziamenti
Maurizio Fiasco è sociologo e consulente della Consulta Nazionale Antiusura, quindi consapevole di quanto i finanziamenti possano incidere in contesti sociali e contribuire allo sviluppo di realtà criminali.
Perché questi fenomeni sono così capillari?
“C'è una prima matrice, che è una forma di marketing sfuggita di mano. Si tratta di una tecnica di fidelizzazione, formata da gruppi gregari di tifosi che creano una forma di identità comune ormai generale. La faziosità sportiva è l'anima dello sport, però quando diventa strumento di fidelizzazione di una squadra, si apre una falla e si crea un rischio”.
Quali sono le ragioni, secondo lei?
“Ci sono due substrati. Il primo è dato da questa tendenza a identificarsi in comportamenti tribali e che ha preso piede nei lunghi anni della crisi italiana e fornisce la strada per una socializzazione rischiosa. Si formano, così, leader e gregari in un processo ben noto nelle periferie urbane e sociali. Poi c'è una doppia strumentalizzazione, sia politica che delinquenziale”.
Strumentalizzazione delinquenziale: cosa significa?
“La strumentalizzazione delinquenziale avviene nel consolidamento di una forma di aggregazione in cui si pone il problema del consenso e dell'edemonia. L'aggregazione è un'attività di affermazione sociale e i delinquenti hanno bisogno di un'immagine che ritorni. Il gioco del calcio è un viatico potentissimo, per cui finanziare taluni club calcistici favorisce questo, basti pensare alle inchieste che rivelano nella tifoseria la presenza di personaggi contigui alla criminalità”.
Lei parlava anche di strumentalizzazione politica…
“Sì, basta fare una vivisezione del gruppo ultras per rendersi conto di quanti esponenti della malavita entrino in contatto con contesti politici. Basti pensare al caso di Roma, con una personalità come 'Diabolik', a metà strada fra l'essere un leader delle tifoserie ed essere legato al fascismo”.
Qual è la soluzione, secondo lei?
“Secondo me, vanno ridimensionati i finanziamenti nello sport. Si guardi al rugby: il tifo non è lontanamente paragonabile a quello del calcio. Bisogna, dunque, allontanare il più possibile il denaro dal gioco. C'è anche un'altra motivazione: il giro delle scommesse intorno alle partite. Alla fine, i tifosi sono attori inconsapevoli e appassionati di provincia coinvolti in un meccanismo più grande”.
Incocciati: lo sguardo da dentro
Beppe Incocciati non ha bisogno di presentazioni. Ex attaccante di Milan e Napoli, amico di Diego Maradona, offre uno sguardo sul fenomeno dall'interno degli stadi, che la violenza trasforma in teatri di guerrilla.
La violenza negli stadi è un fenomeno recente?
“Nella storia del calcio ci sono sempre stati episodi di violenza, più o meno pesanti, sia fuori che dentro. Tutti ne abbiamo memoria, dal caso di Paparelli agli accoltellamenti a San Siro, fino al motorino lanciato dalla curva nord dell'Inter. Si tratta di episodi che caratterizzano il malessere delle persone. Purtroppo, oggi gran parte di questi scalmanati sono pieni di stupefacenti e alcool”.
Secondo lei, il problema è nell'uso di sostanze stupefacenti?
“Oggi si tende a minimizzare questo problema, ma le droghe tolgono lucidità alle persone, soprattutto nel calcio, che è terreno dove si relaziona un numero alto di persone, soprattutto negli appuntamenti domenicali. Addirittura, quando sanno di essere inquadrate, alcune tifoserie ostentano spinelli o sostanze illegali”.
C'è, quindi, un rischio diseducazione delle nuove generazioni?
“Basti vedere ai decreti che portano la cannabis ad essere venduta nei negozi! Che i giovani oggi facciano uso di droga e alcool non è un mistero. Una volta, invece, noi giovani avevamo un profondo senso di vergogna. Oggi, invece, c'è addirittura spavalderia e i più giovani pensano di poter fare tutto, come uccidere un uomo investendolo”.
Il calcio, figlio della società
Riccardo Cucchi è la voce della radiocronaca sportiva. La sua sensibilità, frutto di decenni di professione, dipinge un mondo a tratti nostalgico perché – come lui stesso sottolinea – il calcio non è mai statico, ma al contrario si trasforma di pari passo con la società.
Perché la violenza nel calcio è aumentata negli ultimi anni?
“Perché il calcio è un fenomeno della società e credo sia difficile che possa vivere in una sfera isolata rispetto alla società, in negativo. Gli ultimi episodi di cronaca testimoniano qualcosa che serpeggia nella nostra società, però va detto che i violenti sono ancora una minoranza. La maggioranza delle persone vuole vivere una passione”.
Si può parlare di aumento o diminuzione del fenomeno?
“Senz'altro c'è una diminuzione degli atti di violenza sia all'interno che all'esterno. Lo stadio non è pù solo un serbatoio di violenza; il problema semmai è che c'è un forte debito nei confronti della cultura, e cioè che c'è bisogno di una maggiore cultura sportiva che possa aiutare a vivere la vittoria e la sconfitta come fenomeni di un gioco a cui siamo abituati”.
Chi è responsabile di tutto questo?
“Tutti lo siamo, e con questo includo anche noi giornalisti, che spesso narriamo il calcio come non dovrebbe essere fatto. Intendo dire che spesso la narrazione favorisce divisioni polemiche e una cultura di odio. C'è poi una responsabilità dei dirigenti ed oggi ci sono società che vogliono eliminare le violenze. Una parte di responsabilità va anche ai calciatori professionisti, che devono evitare le violenza sul campo e rispettare il principio di lealtà, sia sul campo che sugli spalti”.
Qual è il messaggio che dovrebbe passare?
“Che si può essere faziosi senza che questa passione diventi sinonimo di odio. Per tifare la propria squadra non si deve per forza essere avversari. Ma sarebbe un errore pensare che la violenza sia una prerogativa del calcio. Nel calcio, ciascuno mette il proprio talento al servizio della squadra”.
Eppure in altri sport non ci sono queste manifestazioni di violenza…
“Sappiamo che nel rugby non esistono tali fenomeni, ed è vero. Questo perché nessuno di questi sport raggiunge livelli di popolarità e di aggregazione come quelli che assume il calcio. Per questo, l'espressione delle curve di oggi è un cambiamento della società, il malessere che si esprime nelle curve è il malessere nella società. Sarebbe un errore pensare che il calcio sia un'isola felice, ma anche che il calcio stesso possa risolvere i problemi della società di oggi”.