Perché il discorso di Draghi sembra essere rivoluzionario

Mario Draghi
© presidenza del Consiglio dei ministri

È passata più di una settimana dall’intervento di Mario Draghi a La Hulpe che ha portato dei seri punti di riflessione su quello che è stata l’Unione Europea e quello che dovrebbe essere. A tanti non è sembrato un discorso da “tecnico” ma da candidato in pectore per la guida dell’Unione, magari in contrapposizione a un bis di Ursula von der Leyen il cui mandato è stato caratterizzato da luci e ombre, in un periodo oggettivamente non facile va sottolineato, e che ha attirato diverse critiche soprattutto da parte dei gruppi di minoranza all’interno del Parlamento europeo.

A un orecchio meno attento potrebbe sembrare che le parole dell’ex Premier fossero indirizzate verso un tema specifico, l’economia, ma un ascolto più attento permetterebbe di individuare una critica, profonda e feroce, all’intero impianto politico UE e alla necessità di una vera e propria rivoluzione che si sintetizza nel passaggio “abbiamo bisogno di un’UE adatta al mondo di oggi e di domani” seguita dalle parole chiave “cambiamento radicale” che non sono state messe lì a caso.

Ripensando al punto focale posto in incipit, la competitività, la trattazione si è snodata intorno al tema della crescita e della sostenibilità di lungo periodo delle politiche economiche, giudicate errate, che sembrano quasi copiate da quelle attuate dall’Italia dai primi anni 90 e che hanno portato il Paese alle criticità che stiamo vivendo oggi. In pratica più che un’influenza dell’Europa in Italia sembrerebbe che sia stata quest’ultima il modello per l’azione degli ultimi decenni e non è certamente un bene.

All’inizio degli anni 90, infatti, lo Stivale si è trovato in una situazione critica, con seri problemi di sostenibilità del debito pubblico e una produttività industriale boccheggiante, sfiancata da alti costi e una produttività declinante di fronte alla progressiva apertura dei mercati, quindi a concorrenti esteri, che sarebbe diventato effettivo con la chiusura dell’ultimo round del Gatt. Nel 1995, e con la creazione della WTO.

La soluzione trovata fu da manuale, per mantenere il sistema senza grossi scossoni e rivoluzioni si decise, insieme alle organizzazioni sindacali, di perseguire una moderazione salariale, giudicando, erroneamente, il costo del lavoro l’unica variabile competitiva su cui agire; la materia economica, si sa, non è mai stata molto amata nel Paese e in pochi pensarono che non sia possibile competere a livello di salari con paesi con remunerazioni medie di poco superiori a un “pugno di riso” e con un costo della vita incredibilmente minore rispetto al nostro, il risultato lo si sta vivendo proprio in questi anni, con i costi che, progressivamente, si sono allineati al resto del continente e i salari, caso unico in tutta l’OCSE, che hanno avuto una progressione negativa in termini reali. Fin dalla crisi del debito sovrano, oltre 10 anni fa, però questo indirizzo sembra sia diventato comune in tutti gli Stati membri dell’Unione.

Non è un caso la citazione di Paul Krugman in incipit sulla “pericolosa ossessione” per la competitività che, attenzione, non è una critica alle “politiche neoliberiste” che, a volte, viene erroneamente attribuita a questo economista, premio Nobel, ma, attenzione, l’esposizione di una precisa tesi che delinea una crescita di lungo periodo derivante da un aumento della produttività che avvantaggia tutti e non meramente la ricerca di migliorare la propria posizione competitiva rispetto agli altri appropriandosi della loro quota di crescita.

A leggerle, queste parole, sembrerebbero quasi una banalità ma, invece, rappresentano un approccio rivoluzionario rispetto agli indirizzi seguiti negli ultimi anni in Europa perché legata proprio a una questione fondante che riguarda salari e domanda interna.

Non è un mistero per nessuno che in questi anni il resto del mondo sia cresciuto a una velocità nettamente superiore a quella di tutta l’Euroarea mentre quest’ultima si è concentrata soprattutto su temi, diciamo, etici e di sostenibilità ecologica, importantissimi nessuno lo mette in dubbio, quando però lo sviluppo di questi deve correre in parallelo con un preciso piano di sostenibilità economica che non può e non deve essere tralasciato.

Un impianto che non preveda un focus sulla crescita economica e sul miglioramento reddituale di famiglie e imprese non potrà mai vedere una sua “messa a terra” perché la tutela dell’ambiente unita alla diffusione e al consolidamento di una nuova forma di società, più aperta e tollerante, ha come condizione prodromica un benessere economico diffuso e un crescente risparmio che possa finanziare gli investimenti.

Tra nuove imposte e nuovi obblighi come la “transizione verde” per veicoli e immobili che necessitano di fondi ingenti che non possono essere meramente finanziati tramite agevolazioni fiscali poiché, come ricordò tanto tempo fa Margaret Thatcher, “non esistono i soldi pubblici, esistono solo quelli che lo stato ci prende” e quella ricchezza va prodotta: non è possibile contare solo sul patrimonio esistente come fonte di finanziamento perché attingervi (come invocano, spesso, crete compagini politiche e sindacali), oltre che generare un effetto reddito negativo e recessivo che andrebbe a colpire consumi e investimenti, andrebbe decurtarlo pesantemente fino all’esaurimento, senza alcuna garanzia di un futuro rimpinguamento, ma l’unica strada percorribile e sostenibile è quella della crescita che possa sostenere investimenti e progressione salariale, la quale, a sua volta, va a finanziare la domanda interna e gli investimenti privati. A loro volta, poi, questi ultimi due punti sono fondamentali per spingere la crescita.

Sembra un uroboro e, in effetti, così è perché quello che, oggi, è necessario in Europa è reinnescare il ciclo virtuoso della crescita che permetterà, da un lato, la reindustrializzazione del continente e una certa indipendenza da altri stati che, oggi, diventerebbero i veri “domini” dell’Unione se si volesse perseguire nella miope impostazione che da anni viene data alla guida continentale e che si è acuita sotto l’azione delle ultime legislature a guida Juncker e von der Leyen.

Il discorso di Mario Draghi, nella sua semplicità espositiva, risulta essere, di fatto, rivoluzionario perché va a scardinare molti dei punti, oggi, considerati immutabili all’interno dell’Unione e a proporre una nuova via, più integrata a livello economico, spazzando via l’assunto spesso ripetuto a difesa della PMI “piccolo è bello”, per fronteggiare un mondo che sta cambiando cosa di cui gli Stati europei sembra non vogliano accorgersi, per spingere gli investimenti sui settori strategici, oggi pesantemente fazionati da interessi statali non sempre realmente vantaggiosi ma che necessiterebbero di maggiori economie di scala, e riportare una maggiore attenzione dal lato dell’azione dei privati non solo come consumatori ma anche come investitori, poiché dei capitali fermi non sono mai utili per nessuno, né per il risparmiatore che li vede decurtati dall’inflazione e dai costi di gestione, né a livello di sistema che perde un vero e proprio volano negli investimenti.

Questo richiede una trasformazione dalle basi nell’approccio d’azione dell’Europa, prima, e degli Stati membri, di conseguenza in ogni campo, dal livello normativo, a quello fiscale (che deve diventare più efficiente e meno vorace) e, soprattutto, da quello dell’istruzione e della formazione tout court per sviluppare talenti e competenze.

Quella che viene posta è una sfida epocale che non può non partire dalla politica e dalle istituzioni perché l’alternativa sarebbe il declino continuo e la sempre maggiore dipendenza da altri attori sulla scena nazionale.

Si diceva che questo fosse un intervento da candidato alla guida della Commissione più che di un tecnico? Da quello che si sente sui media in questi giorni, l’ipotesi sembra sempre più fondata solo che mentre prima si vociferava che la candidatura, alternativa al von del Leyen bis, potesse essere sostenuta soprattutto dall’ECR, il gruppo dei conservatori e riformisti presieduto da Giorgia Meloni (che nonostante durante il governo Draghi sedesse all’opposizione mai ha negato gli ottimi rapporti con l’ex Premier), oggi il sostegno che parrebbe giungere anche dal Presidente francese Emmanuel Macron e dal suo partito Renaissance aprirebbe a una candidatura supportata anche da Renew Europe portando una grande fetta dell’emiciclo di Strasburgo a candidare Mario Draghi anche se vedremo se questa ipotesi si concretizzerà nelle prossime settimane, prima del voto di giugno che rinnoverà l’intero Parlamento europeo.