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Sud Sudan, carestia record nel Paese senza pace

Due mesi e mezzo fa hanno fatto il giro del mondo le immagini di papa Francesco che si inginocchia ai pedi dei tre leader che si contendono il Sud Sudan per implorare la pace affinché “il fuoco della guerra si spenga una volta per sempre” nel Paese africano. In occasione del  ritiro spirituale in Vaticano delle massime autorità religiose e politiche sud sudanesi ideato dall’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby,  il Pontefice richiamò l’attenzione del mondo sulla tragedia del popolo del Sud Sudan sfigurato da sei anni di guerra civile e da oltre 400mila morti. E rese concreta la preghiera inchinandosi davanti al presidente Salva Kiir e ai vicepresidenti designati, tra cui Rebecca Nyandeng De Mabior, vedova del leader sud sudanese John Garang, e Riek Machar, leader dell’opposizione, per baciare loro i piedi. Ora i report internazionali fanno emergere dati sconvolgenti. Il numero di persone con grave carenza di cibo in Sud Sudan è più alto che mai. Secondo l'aggiornamento della scala di classificazione integrata della sicurezza alimentare (Ipc) rilasciato dal governo del Sud Sudan entro la fine di luglio circa 6,96 milioni di sud sudanesi dovranno affrontare livelli acuti, o addirittura peggiori, di insicurezza alimentare. Si stima che molto probabilmente 21 mila  persone saranno esposte a una catastrofica carenza di cibo, mentre circa 1,82 milioni saranno in stato di emergenza e altri 5,12 milioni in stato di crisi alimentare, riferisce l’Adnkronos.

La tempesta perfetta

Rispetto alle previsioni dello scorso gennaio per il periodo maggio-luglio 2019, 81.000 persone più del previsto sono in fase IPC 3 o superiore, in particolare negli stati di Jonglei, Lakes, Unity e Northern Bahr el Gazal. La stagione magra è iniziata presto, a causa delle scarsissime scorte del misero raccolto del 2018, ed è stata prolungata ulteriormente dal ritardo delle precipitazioni stagionali del 2019. Ciò va ad aggiungersi alla persistente instabilità economica, agli effetti dei precedenti anni di guerra, al conseguente esaurimento delle risorse e alle migrazioni forzate, che hanno contribuito al dissesto dei mezzi di sussistenza e al ridotto accesso al cibo, evidenzia l’Adnkronos. Gli elevati prezzi degli alimenti causati dai pessimi raccolti dello scorso anno, le perturbazioni del mercato causate dall'insicurezza, dagli elevati costi dei trasporti e dalla valuta deprezzata stanno inoltre innalzando i già elevati livelli di insicurezza alimentare acuta. L'effettiva attuazione dell'accordo di pace e la stabilità politica sono indispensabili per consentire l'immediata assistenza umanitaria per tutelare i mezzi di sussistenza e incrementare la produzione agricola in tutto il paese per salvare vite. “Con una maggiore stabilità nel Paese, gli aiuti ai bisognosi sono migliorati, consentendoci nei primi cinque mesi dell'anno di curare oltre 100mila bambini affetti da grave malnutrizione e oltre il 90% di essi è in ripresa- afferma Mohamed Ag Ayoya, rappresentante Unicef nel Sud Sudan-. I livelli di malnutrizione rimangono però critici in molte aree e temiamo che la situazione possa peggiorare nei prossimi mesi”. Il periodo di carestia coincide con la stagione delle piogge, che è la tempesta perfetta nel Sud Sudan – dichiara Ronald Sibanda, direttore nazionale del Wfp, il Programma alimentare mondiale, nel Sud Sudan -. Mentre incrementiamo i nostri interventi, la corsa ora è contro il tempo e la natura: dobbiamo agire subito per salvare la vita e i mezzi di sussistenza di milioni di persone sull'orlo della fame”.

L’impegno della Santa Sede

Un “tempo di grazia” dedicato alla riflessione e alla preghiera, per chiedere a Dio “un futuro di pace e prosperità per la gente del Sud Sudan”. Nelle parole del segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, è stato questo a metà aprile il senso del ritiro spirituale  in Vaticano, alla la Domus Sanctae Marthae, con la partecipazione delle massime autorità civili ed ecclesiastiche del giovane Paese africano, indipendente dal Sudan dal 2011. Un’ iniziativa “spirituale, ecumenica e diplomatica”. Una “opportunità” di incontro e riconciliazione nello spirito “del rispetto e della fiducia” per coloro che “in questo momento hanno la missione e la responsabilità speciali di lavorare per lo sviluppo” del Sud Sudan, precipitato nel 2013 in una sanguinosa guerra civile, con un bilancio di almeno 400 mila morti. Presenti oltre ai leader politici i membri del Consiglio delle Chiese del Sud Sudan, con i predicatori del ritiro monsignor John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu (Uganda), e il padre gesuita Agbonkhianmeghe Orobator, presidente della Conferenza dei Superiori Maggiori dell’Africa e Madagascar. L’arcivescovo Paul Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati, ha visitato il Paese africano. Il gesuita Agbonkhianmeghe Orobator si è soffermato sul vero significato di ritiro spirituale, inteso come tempo “per incontrare Dio” o, meglio, come tempo in cui “Dio possa incontrare noi”. Il Signore, ha spiegato, “ci parla qui”, non “con il telefono cellulare”, né “attraverso Twitter, Facebook, Instagram”, in un percorso che è di guarigione, di purificazione e di missione come “artigiani di pace”. L’invito è stato a parlare “l’un l’altro” dal profondo del cuore, illuminati dallo Spirito, mai dimenticando i 13 milioni di abitanti del Sud Sudan, affinché l’accordo di pace sia siglato soprattutto “nei nostri cuori”. Il predicatore, presidente della Conferenza dei Superiori Maggiori dell’Africa e Madagascar, ha esteso la riflessione all’inno nazionale sudsudanese “South Sudan Oyee!”, sollecitando i presenti a declamarlo ed ascoltarlo durante il ritiro. In esso, ha spiegato, si menziona Dio due volte, all’inizio e alla fine: quella del Sud Sudan, ha evidenziato padre Orobator, è gente “di fede”, che con “un’unica voce” prega, glorifica ed esprime fiducia nel Signore, in “pace ed armonia”.

Un'altra ricchezza

La maggior risorsa e ricchezza del Paese, ha osservato, non è data dalla terra, dall’acqua o dal petrolio: è la gente. Il gesuita, riferisce il Sir, ha ricordato il giorno dell’indipendenza da Khartoum, il 9 luglio 2011: in tutti i sudsudanesi, di ogni etnia, c’era gioia, euforia, giubilo perché la nazione “era nata”, con una speranza di pace, giustizia, prosperità, libertà. Eppure, ha notato, nel Paese oggi ci sono “7 milioni di persone”, “quasi la metà della popolazione” locale, ridotti alla fame estrema, le scuole si abbandonano a causa delle violenze intercomunitarie e tra clan, 4 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case, rifugiandosi nei campi profughi. L’invito è stato allora quello a ricuperare il “sogno” dell’inno nazionale, andando oltre le “ostilità” e le “incomprensioni”, scegliendo tra la guerra e la pace, scegliendo “la vita”, per una riconciliazione che non è solo “personale” ma “nazionale”. Una sollecitazione proseguita anche nella cappella di Casa Santa Marta, dove il predicatore ha invitato i partecipanti a raccogliersi in preghiera. Come dimostrano i dati dei report internazionali, mai quanto ora l’aiuto di Dio è indispensabile per la popolazione del Sud Sudan.

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