I due messaggi della visita di Mattarella a New York

Liberazione
Foto © Quirinale

L’inizio della crisi ha una data ben precisa: 5 febbraio 2003. Il giorno in cui l’allora segretario di Stato americano Colin Powell si presentò al Palazzo di Vetro per accusare l’Iraq di produrre armi di distruzione di massa. Una bugia bella e buona, che servì a giustificare la sciagurata guerra che sarebbe iniziata di lì a un mese. Per capire il danno: saltò l’Iraq (non che Saddam fosse un angelo, ma il rimedio fu peggiore del male), si destabilizzò la Siria, nacque il Daesh. Di conseguenza: guerra civile in Siria, penetrazione russa in Medioriente, Libano sull’orlo di un nuovo scontro fratricida, svolta autoritaria in Turchia, rafforzamento del regime islamico in Iran (un paio di ondate di proteste schiacciate nel sangue), fallimento delle primavere arabe, nuova presa di potere talebana in Afghanistan, penetrazione russa questa volta nel Sahel. Saltano il Niger ed il Mali. Aumento dei flussi migratori. In Europa la guerra in Ucraina scatenata da una Russia illiberale e resa burbanzosa dai successi in Medioriente. Poi quella tra Israele e Hamas. In pericolo persino la giugulare dei commerci mondiali, quel Canale di Suez su cui piovono i razzi degli Houthi yemeniti, cioè di sciiti filoiraniani che odiano i wahabiti sauditi che sono invisi al Qatar che è filoccidentale ma è anche accusato di connivenze integraliste. E lo chiamavano Nuovo Ordine Mondiale.

Una reazione a catena, semmai, definita efficacemente dal Papa “guerra mondiale a pezzi”. Siamo insomma al 1945, se non al 1941. Urge una nuova Dumbarton Oaks, come la conferenza che pose le basi per le Nazioni Unite. Ancora ci sono, per carità, ma da quando furono ignorate se non ingannate vent’anni fa contano sempre meno. Eppure se ne ha bisogno più che mai.

Anche per questo Sergio Mattarella vola a New York in questi giorni: per rilanciare quel concetto di multilateralismo che tanto volle dire per la pace ai tempi della Guerra Fredda e oltre, e che oggi appare appannato se non ignorato. Eppure – come ebbe a dire proprio Mattarella già cinque anni fa – il grande salto di civiltà che si ebbe nel ’900 fu proprio “nel passaggio del potere estero dalla agiuridicità alla civiltà del diritto”. Vale a dire nello stabilire il principio che le relazioni internazionali non sono un campo aperto dove vince il più forte, ma lo spazio fisico in cui far valere il diritto. Questo punto di partenza spiega anche la posizione del Quirinale, più volte espressa, sulla guerra in Ucraina e sulla necessità che nasca un esercito comune europeo: non strumento di aggressione e sopraffazione, bensì garanzia di difesa e rispetto del diritto internazionale. Che poi vuol dire anche tutela dei diritti umani, imposizione della pace, mantenimento della stabilità.
Certo, ci sono state pagine di vergogna anche per i caschi blu, ma l’errore anche gravissimo non cancella la serietà dell’impostazione. La corruzione non è giustificazione per buttar via l’acqua sporca ed il bambino, l’inazione è inaccettabile ma l’assenza è qualcosa di molto peggiore.

Questo ricorderà il Presidente, nei tre giorni che passerà quasi del tutto al chiuso del quartier generale dell’Onu, forte anche del fatto che tradizionalmente l’Italia è tra i principali contributori al suo bilancio. E ad orecchie non troppo lontane – pur sempre a New York ci si troverà – arriverà anche un secondo, subliminale messaggio. Questo: per gemmazione dal principio del multilateralismo Onu si sono riprodotti una serie di forum internazionali essenziali per quel poco di ordine mondiale che ancora regge l’anima coi denti. Si pensi al G7, si pensi al G20, si pensi allo stesso Wto: tutti sottoprodotti di Dumbarton Oaks.

Anche il più isolazionista tra gli isolazionisti americani non potrà che accorgersi – persino in tempi di campagna presidenziale come questi – che senza l’Onu, senza il multilateralismo, America First è uno slogan vuoto e truffaldino, che porrebbe gli Usa ai margini di un mondo costretto a fare senza di loro. Non è un caso se la conferenza di Dumbarton Oaks si tenne in una ex piantagione di schiavi, a indicare la vittoria dei liberi, e che quella piantagione si trovi alla periferia di Washington.